Ainslie's
Vibes: Standing Ten Feet Tall (and Raging Like a Bull) (UK)
Tim
Ainslie mi ha contattato qualche mese fa chiedendomi di introdurlo
presso i blues fans italiani in occasione dell'uscita del nuovo album "Standin
Ten Feet Tall (and Raging Like a Bull)" registrato con la sua band, la
Ainslie's Vibes. Una richiesta che mi ha lusingato e che ho accolto con
interesse.
Tim è un chitarrista e songwriter britannico con un background artistico
di tutto rispetto. Ha suonato per la BBC (come le stelle del
rock...) sia alla pubblicazione del disco d'esordio "The People Have Spoken",
che affiancando bluesmen del calibro di Lightnin' Willie, Buddy
Wittington e Gregg Wright. E' stato in tour negli USA con la band Swagger & Groove Doctors
e, se ciò non dovesse bastare, sappiate che gli ascoltatori della web
radio Digital Blues l'hanno recentemente insignito del titolo "Best Guitarist"
dell'anno!
La storia di Tim è quella di milioni di ragazzini che in piena
adolescenza hanno ricevuto una
chitarra in regalo dal padre. Al contrario dei più però, non l'ha
riposta nello sgabuzzino di casa dopo qualche improbabile tentativo,
piuttosto l'ha eletta
a musa ispiratrice, imparandone la tecnica per creare le sue canzoni
e divenire un professionista.
Il Blues suonato nell'Inghilterra dei sessanta ha influenzato non poco
Ainslie che però non s'è fermato alla mera riproposizione di standards
ma ha creato un suono tutto suo: un mix di Blues, Rock e Jazz. "Standing
Ten Feet Tall..." è tutto ciò (ed anche di più). Possiede, inoltre,
una voce che definire particolare può apparire riduttivo: scura e
potente, ricorda l'"irriverenza" di Tom Waits e concorre all'impatto
che il sound complessivo produce in chi l'ascolta. In questa proposta è
ottimamente affiancato dagli Ainslie's Vibes, ovvero Alex Best alla
batteria e Roy Little al basso con (per l'occasione) Roger Cotton
all'organo Hammond.
Tra i brani che vorrei segnalarvi c'è senz'altro l'iniziale,
trascinante, "The Might Of The Might"; "Long Long Way From Home",
abilmente sostenuta dalla chitarra ritmica; "If Only" dal suadente ritmo
creolo, alla New Orleans; "Mid-Life Crisis Blues" con un'andamento
walkin' molto gradevole e dal sapore swing; ed infine, la bella "Divine
Intervention", il mio brano preferito. Lascio al vostro giudizio,
sperando di aver creato un pizzico di curiosità, gli altri brani del CD
che è complessivamente molto originale. Vi invito, pertanto, ad
ascoltarlo: potreste avere una bella sorpresa.
Albie
Donnelly's Supercharge: Live & Loaded 2CD (UK)
Sassofonista
e cantante di Liverpool classe 1947, Albie Donnelly è uno di quegli artisti
che, pur prestando i suoi servigi ad autentiche leggende della musica (Chuck
Berry, B.B. King, Fats Domino, Ray Charles), non ha avuto il successo
internazionale che avrebbe meritato, o meglio, non nella misura più adeguata
alla sua classe. Nel 1974 fonda i Supercharge con i quali raccoglie
l'interesse del pubblico che gli tributa un disco d'oro in Australia per
l'album "Local Lads Make Good". Sino ad oggi i Supercharge hanno
collezionato ben 15 album tra cui un live registrato da Maxine a Parigi in
occasione del matrimonio di Tina Onassis. Il "territorio d'azione" di Albie
si estende dal jazz al r'n'b grazie ad una formazione a nove dove i fiati la
fanno da padroni. Live and Loaded è una raccolta di motivi legati a
figure di primo piano nella storia della musica nera. Un doppio CD nel quale trovano
spazio covers di Johnny Guitar Watson. Albert King, T-Bone Walker, Mel
Torme, Buddy Johnson, Eddie Winson, Muddy Waters e Big Joe Turner tra gli
altri. Non mancano le composizioni di Albie che si integrano alla perfezione
con i più celebri standard. "Don't Worry 'Bout A Thing" è un blues shuffle
con armonica in stile Chicago; il ritmo del boogie si insinua in "Won't Be
Your Fool Anymore", il brano è arricchito da un solo di Mr. Donnelly al
tenore che ci da un saggio della sua classe. In Live and Loaded c'è
swing a volontà, condensato in circa 53 minuti tutti da gustare. I
Supercharge sono stati anche in Italia partecipando a diversi festival. Salvatore Amara & The
Easy Blues Band: The Blues
Catcher
Salvatore
Amara è un chitarrista, cantante e songwriter sardo con un’esperienza
accumulata in più di due decenni dedicati al Blues. La sua
avventura parte da Londra (dove vive nei primi anni novanta), nel
circuito dei pubs in cui si esibisce con diverse bands locali.
Già nel ’93, tornato in Italia, da corpo a quella che sarà la sua band
sino ad oggi: The Easy Blues Band.
E’ del 1997 la prima registrazione su MC (la musicassetta a nastro
magnetico del secolo scorso...) con brani di sua composizione,
intitolata “Wanted Dead Or Alive”. Perdonate l'annotazione personale ma
la cosa mi riporta indietro, quando anch’io - più o meno nello stesso
periodo – ero dedito a questa pratica, l’unica possibile onde evitare
di spendere milioni di Lire (!) per una sala di registrazione.
Il primo CD, “Back To The Blues”, è datato 2011 ed arriva a seguito di
una serie di esperienze di tutto rilievo tra cui: le due partecipazioni
al festival di Narcao (Cagliari), nel ’95 e nel ’96; l’esibizione in
Svizzera al Blues Festival di Münchwilen nel '97, con un tour per i
locali di Zurigo; l’opening act per Jono Manson nel 2011; ecc. Il 2014
è l’anno del nuovo lavoro “The Blues Catcher”.
La
cosa che balza subito agli occhi è la quantità dei brani: ben 18
e tutti originali! Salvatore non è certo un tipo sparagnino anzi, la
sua ispirazione può risultare a tratti debordante considerando la
quantità di generi che mette assieme. Trovo esplicativa la definizione
che lo stesso Amara da della sua musica: "...
è da diversi anni che sono alla ricerca del suono "originario", o
almeno così mi piace chiamarlo, ossia quel suono che trae origine dal
battito del cuore e che ha dato vita a tutte le musiche etniche, dal
blues al reggae, dai canti tradizionali della mia isola a quelli dei
nativi americani...". L'esempio di ciò è racchiuso in pezzi come
"The Blues Catcher" (che apre e da titolo al disco), "Antonietta",
"Alba", "Eja, Eja, Eja", in cui lo slide si fonde col marranzano (sa
trunfa in
sardo, scacciapensieri per i più) con vocalità di stampo etnico. Ma il
disco - come dicevo - è un alternarsi di stili, tanto che a "The Blues
Catcher" segue il funky in italiano "Mi Avete Rotto il Blues" (che
ritroviamo nel prosieguo anche in versione country). C'è quindi il
classico treno, "La Freccia Sarda", riproposto con l'armonica dal bravo
Dimitri Pau.
Vorrei sottolineare le composizioni di marca swing
come "Butterfly", "Get Loud" e la bella "Alberta", che nel motivo
conduttore ricorda la celebre "Corrina, Corrina" e che chiude il CD
lasciandoti con il sorriso in volto. Ed ancora blues e rock blues in
"Lone Wolf", "The Blues in My Soul", "My Heart Is in London"... Ma c'è
ancora tanta roba che scoprirete solo ascoltando "The Blues Catcher",
in vendita presso i principali internet stores.
In conclusione, mi pare doverosa una menzione per la band, solida e
capace di essere sempre a proprio agio.
Angela Esmeralda e Sebastiano Lillo: Deltasoul
Angela
Esmeralda e Sebastiano Lillo sono due nomi nuovi del Blues italiano. La
giovane età e la rapidità con la quale si sono imposti all'attenzione
di tutti è davvero singolare. Entrambi hanno bruciato le tappe non
senza aver studiato ed essersi fatti le ossa sin da ragazzini. In breve
tempo hanno partecipato a manifestazione di livello tra le quali le
selezioni per l'International Blues Challange che hanno vinto staccando
il bigletto per Memphis dove rappresenteranno (aggiungo, con merito) il
nostro movimento nella patria del Blues.
Angela
Esmeralda è cantante e suona anche la chitarra. La sua voce,
modellata su una matrice di stampo jazzistico, ha una gran quantità di
sfumature che la rendono particolare e grintosa. Sebastiano Lillo è
chitarrista ed ha sviluppato un'invidiabile tecnica al dobro. Grazie al
padre, grande appassionato di musica, è stato stimolato sin da bambino:
a diciassette anni già suonava in giro... (così come Angela).
Giovani quindi, ma già maturi per dare vita ad un disco di qualità con sapiente costruzione degli arrangiamenti.
"Detalsoul" testimonia l'ascolto di tanta musica e le
influenze così accumulate. Il linguaggio è, in generale, quello del
Blues acustico anche se Angela e Sebastiano sono ben lungi dalla
"ruggine"
che solitamente caratterizza quella musica. I loro suoni sono curati
e attingono da varie fonti: soul, jazz, blues... come il
titolo del disco lascia intuire. Sebastiano Lillo lo definisce così: "DELTASOUL è un album che racconta storie, non è
esplicazione di un genere seppur si muova fra blues e soul acustico". Le 11 tracce qui presenti sono tutte
composizioni originali a firma congiunta dei due artisti pugliesi.
Si
parte con il funky in "Bob's Modd" che la vocalità di Esmeralda
trasporta verso sonorità jazzy, per passare subito dopo al classico rag
in "Buy Me A Ring" con il dobro che fa da protagonista. "Blue Freedom
(Minor Blues)" assieme a "Gave Up" ed alla conclusiva "Miss Kent" si
orientano marcatamente verso il jazz. Il Blues acustico si affaccia
sulle note di "Hurry Down" a cui fa il paio la trascinante "I Don't
Belong", per diventare elettrico in "Blues For Beatrice" con Lillo che
lascia il dobro per la chitarra elettrica e duetta con l'Hammod. Ed
ancora il rag time alla Blind Boy Fuller in "Hokum on Morton"... Vorrei
infine segnalare due momenti del disco che gli artisti si sono
rispettivamente riservati: "Drive My Car", cantato a cappella da Angela
Esmeralda che qui declina tutte le capacità della sua voce, e
"Me And Greta Walk Naked", uno strumentale condotto da Sebastiano Lillo
in cui il suono metallico dello slide porta con se la tipica immagine
dei polverosi deserti del Sud.
Beh, non c'è che dire... ha visto proprio bene l'etichetta Il Popolo del Blues del compianto
Ernesto De Pascale nel produrli. Considero
"Deltasoul" un eccellente esordio discografico che mostra la pasta di
cui sono fatti Esmeralda e Lillo e ne lascia presagire un futuro
brillante.
Baton
Rouge Delta Blues Band: Hobo Ramblin'
Primo lavoro dei Baton Rouge da Busto Arsizio, un combo formato da tre musicisti già da
diversi anni impegnati on the road in Italia ed all'estero quali apostoli
del Delta Blues, la forma più arcaica della musica nero americana che
continua a generare interesse tra gli appassionati nostrani con immutato (se
non crescente) livello di gradimento.
Mario Bartilucci, Stefano Giacon e Marco Riganti, in "Hobo Ramblin'"
propongono una miscela ben amalgamata fatta di motivi, in buona parte
appartenenti al Blues prebellico, uniti ad originali perfettamente coerenti
con la filosofia degli hoboes. Dodici brani che attestano quanto i Baton
Rouge siano bravi e competenti sia come musicisti che nell'energia con cui
alimentano le esecuzioni: l'intero disco (registrato in presa diretta)
trasuda passione da ogni solco.
"Drop Down Mama" è il brano d'apertura, una vecchia composizione di Sleepy
John Estes con, in bella evidenza, l'armonica di Stefano Giacon ed il
mandolino di Davide Speranza, guest presente quale polistrumentista in
diversi momenti del CD. "Leaon On You" è una ballad firmata M. Bartilucci
mentre la successiva "Born in Biscayne" è una cover appartenente al
semisconosciuto artista del Wyoming Spencer Bohren, una piacevole scoperta
per chi scrive. Ancora originali le tracce che seguono: "You Gonna Miss Me",
un motivo alla Terry-McGhee che contiene all'interno un veloce omaggio ai
Rolling Stones, e la ballad "Guidin' Hand" con la bella voce di Elena Zoia in
background. Una vigorosa versione di "Crossroad" fa da premessa alla title
track, autentico manifesto dello spirito guida dei Baton Rouge. "Hobo
Ramblin'" offre le visioni - tutte americane - dei grandi spazi,
trasferendoli nell'immaginario dell'ascoltatore grazie al sapiente impasto
tra il suono metallico dello slide che scivola sul dobro ed il narrante
finger picking della chitarra. Anche qui, ottima l'armonica di Stefano
Giacon. "Mistery Train" è uno di quei "tormentoni" con i quali, prima o poi,
tutti abbiamo dovuto fare i conti... Gagliarda la versione che "i nostri" ci
propongono. Il traditional "Bronswille Blues" anticipa una personale rilettura
di "Done Somebody Wrong" di Elmore James, arricchita dalle percussioni di
Davide Speranza. "Wheep And Moan Blues" di M. Bartilucci (autore di tutte le
composizioni della band) è uno dei momenti migliori dell'intero lavoro: il
brano è di quelli che ti... ritornano in mente. Gran finale quindi con un
bell'arrangiamento della famosa "Aberdeen Mississippi Blues" di Bukka White.
"Hobe Ramblin'" è un disco che si scopre sempre più accattivante, ascolto dopo
ascolto, e conferma l'amore incondizionato dei Baton Rouge per il grande
Blues delle origini.
Meritevoli di segnalazione le suggestive illustrazioni di copertina curate
dal pittore Giorgio Aquilecchia, sovente protagonista, assieme alla band, di
esibizioni di action painting.
Gai
Bennici Band: Blues To Drive
Gai Bennici è,
senza, dubbio, uno tra i migliori chitarristi in circolazione. Tecnica
invidiabile, feeling da vendere, si distingue soprattutto per un'attitudine
compositiva nient'affatto scontata tra i virtuosi dello strumento.
Mi sono già occupato del musicista di Agrigento in occasione dell'uscita del
DVD "In Concert" del 2005 tracciandone anche la biografia.
Qui mi limiterò a presentarvi il nuovo album "Blues To Drive", un lavoro
registrato in studio che mette un punto fermo al repertorio che Gai esegue
dal vivo negli ultimi anni (al netto delle covers). Tre dei brani qui
presenti erano stati già proposti nel video di cui sopra.
Rock Blues puro, viscerale, guidato dalla chitarra che alterna
magistralmente ritmica e solo, fedelmente assecondata dalla puntualità di
Angelo Spataro alla batteria e Domenico Cacciatore al basso.
Sono stati in molti a collocare Bennici vicino a S.R. Vaughan ed ai
chitarristi texani più in generale, dei quali è certamente ottimo epigono,
per le fiammate che sprigiona dal palco a cui si mischiano ballads e momenti
di riflessione di rara dolcezza. Fu di certo lungimirante la rivista "Il
Blues" quando, nel 2002, lo portò alla conoscenza dei bluesofili italiani
anche se la sua carriera, in realtà, inizia sul finire degli anni ottanta
con una lunga ma altrettanto proficua gavetta.
"Blues To Drive" comprende 11 tracce tutte firmate Gai Bennici e sin dal
titolo ne manifesta le intenzioni.
Non credo sia importante per chi legge che mi addentri nei singoli brani
(potete credermi sulla parola) il disco è di quelli che si ascoltano tutto
d'un fiato e proprio nella selezione della "scaletta" (che lascio a voi
scoprire) si cela il segreto della sua magistrale compiutezza. Se digitate
il nome di Gai Bennici nel motore di ricerca di You Tube potete comunque
vederlo ed ascoltarlo ampiamente.
Le registrazioni sono state effettuate in presa diretta presso i "Mono
Studios" di Aragona (AG).
"Blues To Drive": absolutely recommended to rockers and dreamers... and
drivers!
Gai
Bennici Band:
In Concert (DVD)
Agrigento è l'estremo lembo d'Italia, quello che della costa siciliana
guarda all'Africa attraverso il Mare Nostrum. Fu uno dei luoghi più illustri
della Magna Grecia ed i suoi fasti rimangono, sopravvissuti ai millenni,
nella meravigliosa Valle dei templi. In quest'angolo di mondo colmo di
storia è nato e si è sviluppato il talento di Gai Bennici, uno dei più abili
chitarristi italiani.
Il musicista muove i primi passi sul finire degli anni ottanta con la
passione per il Blues nel sangue e la caparbia volontà di conoscere i
segreti dei suoi miti, da Hendrix a SR Vaughan. Il suo stile, nel tempo,
matura sempre più ed il palcoscenico diventa l'habitat naturale nel quale
può dare sfogo all'istinto più recondito. Luoghi comuni a parte, Gai è una
persona adorabile nella vita di tutti i giorni - tutto casa e chitarra - ma
conserva la "rabbia" per i momenti in cui chiude gli occhi e fa viaggiare le
dita, come in una sorta di trance, sulla tastiera dell'inseparabile
Telecaster rossa.
Dopo due esperienze discografiche: "Room 209" ('98) e "Feel You So" ('01),
viene notato dall'etichetta Crotalo che inserisce un suo brano, "Texas Dust",
nella compilation "Sounds Good". Avendo partecipato a tutti i festival
siciliani, è entrato in contatto con grandi interpreti della black music che
hanno contribuito, non poco, alla sua crescita professionale.
Per colmare un gap costituito dalla difficoltà nel proporre i suoi show in
ambito extraisolano (per motivi del tutto personali), Gai Bennici ha
realizzato il DVD "In Concert". Il filmato riprende un concerto tenuto nel
2005 a S. Filippo del Mela (ridente località in provincia di Messina) e
restituisce intatto, grazie alla sapiente regia di Antonio Saporita, il
feeling che pervade le sue performances. 10 brani suonati tutti d'un fiato
con il sostegno degli ottimi quanto inseparabili Blue Roosters: Alberto
Parla al basso e Angelo Spataro alla batteria. I classici "Messin' With The
Kid", "Peter Gunn", "Mean Old Frisco" e "Hoochie Koochie Man", vengono
abilmente miscelati a composizioni originali di ottimo livello sulle quali
svetta la sognante "Sweet Love".
Il DVD è distribuito dallo stesso Bennici attraverso il sito
www.gaibenniciband.com.
Blue Cacao s.g. Vissia Trovato:
Brainstorm
Non
vi nascondo che dopo aver ascoltato “Brainstorm” per la prima volta
sono rimasto, come si dice… un po’ “smarrito”. Abituato a suoni
rustici, in cui armoniche e slide si intrecciano dando luogo al Blues
comunemente noto (elettrico o acustico che sia), mi sono ritrovato in
un mondo parallelo fatto di atmosfere più che raffinate alle quali i
fiati (c’è anche il flauto…) e l’ampio utilizzo di piano ed organo
conferiscono quel jazz feel presente nell’intero lavoro.
La band si
chiama Blue Cacao e viene da Milano. Il CD di cui vi parlo è l’esordio
in sala di registrazione di questa formazione costituita da musicisti
molto esperti qui coadiuvati dalla voce di Vissia Trovato che viene
proposta come special guest pur avendo un notevole peso specifico
nell’economia complessiva.
I Blue Cacao si sono formati da poco più di tre anni attorno alla
figura del sassofonista (e non solo…) Dario Guidotti. “Vecchio”
bluesman dei Navigli, ha suonato nella prima formazione di Fabio
Treves; negli anni settanta ha dato vita ai Jumbo e nel decennio
successivo ai Cacao. Dario non è naturalmente l’unico punto di forza
dei Blue Cacao, al suo fianco infatti operano quattro elementi di ampia
cultura musicale quali il bassista Enzo Cafagna, che lo segue dai tempi
dei Jumbo, Dario Rezzola alla batteria, Silvano Paulli che svolge
diversi ruoli alla chitarra, Daniele Longo che suona organo e piano (ed
insegna presso l’Accademia di Musica Moderna di Milano...), e infine -
ma non ultima - Vissia Trovato che, come dicevo, è ospite di
lusso in “Brainstorm”. Voce “educata” (è diplomata presso la Civica
Scuola di Musica di Milano), Vissia si trova a proprio agio nei vari
temi proposti.
“Brainstorm” contiene quattro brani originali, tutti a firma Guidotti:
“All I Got Is You”, un errenbì con la freschezza dei migliori Doobie
Brothers; “Care For You”, ballad introdotta dal piano, con la
voce intimistica di Vissia Trovato ed un breve quanto azzeccato solo di
Dario Guidotti all'armonica, strumento che Dario continua ad utilizzare
anche nella successiva “My Baby Left Me”, pezzo che un tempo sarebbe
stato catalogato come jazz rock, con pianoforte e chitarra sugli scudi.
L’ultimo motivo a firma Guidotti è uno swing dal titolo "On Fire"
scandito dalle spazzole e caratterizzato dal suono del flauto traverso.
Tra gli standards troviamo un po’ di tutto. C’è Il Blues alla Robert
Cray nello shuffle iniziale “That Train Don’t Stop Here Anymore”; nella
suggestiva interpretazione della "Mercedes Benz" di Janis, con uno
splendido duetto voce-armonica sostenute dal basso possente di Enzo
Cafagna; nella famosa “Room To Move” di John Mayall e, naturalmente, in
"Stormy Monday" di T-Bone Walker in un’inedita versione con flauto. A
sorpresa, i Cacao ci propongono una personale cover di "Can't Buy Me
Love" dei Beatles, anche se il motivo che balza più all’orecchio è
senza dubbio la gradevolissima versione di “Why Don’t Yoy Do Right”, un
pezzo scritto nel 1936 da Kansas Joe McCoy ma che il grande pubblico
conoscerà "solo" negli anni ottanta come la sensuale canzone di Jessica
Rabbit!
Disco da ascoltare, ben registrato e suonato alla grande.
Henry Carpaneto s.g. Bryan Lee: Voodoo Boogie
Quanto
più volte scritto circa l'eccellenza dei musicisti italiani in campo
internazionale, trova l'ennesima conferma nella splendida opera prima
del pianista ligure Henry Carpaneto dal titolo "Voodoo Boogie". E'
certo che
iniziare la propria attività discografica così ha dell'incredibile.
Il progetto parte da New Orleans dove il pianista ha
preso
parte al famoso Jazz Fest ed ai Blues Memphis Awards. Qui ha conosciuto
il noto chitarrista della Crescent City Bryan Lee (con il
quale Henry ha svolto una tournée) che lo ha stimolato nella
coproduzione
del CD mettendo sul tavolo una serie di brani di sua composizione.
Negli USA hanno registrato piano,
chitarra e voce. Carpaneto si è quindi recato a Londra per
"reclutare" Otis Grand (chitarrista e
produttore molto noto della scena britannica), e visto che c'era (per
non farsi mancare
proprio nulla...) ha anche cooptato il batterista storico di B.B. King,
Tony Coleman! In Italia ha aggiunto contrabbasso, batteria
e sax, arrangiando e mixando il tutto presso gli studi Orange Home
Records di Leivi (GE).
"Vooddoo Boogie" ruota attorno al pianoforte che detta il groove nelle
12 tracce grazie alla bravura di Henry Carpaneto che
padroneggia ottimamente il boogie in virtù di uno studio approfondito
dei grandi
pianisti blues di ogni epoca, in particolare dei miti di New Orleans
(da Prof.
Longhair a Dr. John, passando per Doc Pomus).
Tutti i brani originali
sono, come dicevo, a firma di Bryan Lee che fornisce un'impronta ben
visibile (e non
potrebbe essere altrimenti...). La voce è sua in tutto il disco con
quel timbro originale ed a tratti scanzonato che mi ricorda qualcuno...
Provate a far ascoltare il brano d'apertura "Drinking And Thinking" ad
amici inconsapevoli e poi dite quanti di loro hanno pensato al migliore
Dr. John... Si va avanti con il più classico degli shuffle, "My Brain
Is Gone" caratterizzato dall'Hammond di Carpaneto a cui fa seguito "One
Room" (cover
del pianista Mercy Dee Walton), uno slow blues in cui la voce di
Lee fornisce una
prestazione superlativa duettando sapientemente con piano e chitarra.
C'è spazio per Chicago con il beat di
"Welfare
Woman" e con la successiva "Steady Rolling" del compianto Memphis Slim.
Troviamo quindi una versione dell'immortale "Caldonia" del genio del
Jive mr. Louis Jordan, prima che il boogie arrivi prepotente con "Turn
Down The Noise", aggressivo e trascinante come il pianismo del leader.
Ci avviamo verso la fine con un altro slow in cui è protagonista la
chitarra di Otis Grand, "Dog And Down Blues"; quindi un'altra cover
intramontabile, "Rock Me Baby", per concludere con la suadente "Blind
Man Love".
Il talento del musicista è stato recentemente
consacrato dalla rivista
"Blues feelings" grazie
alla nomina ricevuta per i Trophées France quale
"Best European Blues piano player".
Carpe
Diem: Naked Moods
Healing Machine
Si
apre all'insegna della 'coerenza intellettuale' il CD Naked Moods dei
Carpe Diem, formazione italiana che vive ed opera a Caserta, in quel Sud da
sempre culla di chiari talenti. La risata prolungata, ancorché succulenta,
che 'accoglie' l'ascoltatore sulle soglie del CD è infatti uno dei simboli
del carpe diem di latina saggezza, ovvero del vivere senza affannarsi in
estenuanti (piuttosto che improbabili) rincorse, senza troppi problemi da
dover affrontare e con la sacra voglia di gustarsi la quotidianità
acquisendone il meglio. Una filosofia di vita propria del Blues che i Carpe
Diem sposano per confezionare un dono da offrire al diavolo in persona.
Naked Moods è - senza ricorrere a superflui preamboli - un ottimo CD che
si fa apprezzare per il buon sapore 'casereccio' (che al giorno d'oggi va
purtroppo scomparendo...) e per una dialettica forbita che manifesta una
chiara conoscenza del genere (fatto questo che, paradossalmente, non è
sempre ritenuto indispensabile da troppi 'musicisti' nostrani e non...).
Le registrazioni sono state effettuate in proprio e con l'ausilio di mezzi
non proprio da 'Columbia Records' ma costituiscono uno dei punti di forza
della loro musica. Il Blues difatti (passatemi la presunzione) non necessita
di effetti speciali ma di tanta, tanta, competenza e gusto. Swing, shuffle,
boogie, si rincorrono in Naked Moods senza mai intralciarsi l'un l'altro,
dando luogo ad una miscela molto ben amalgamata che definisce appieno il
carattere del gruppo. Tra le dieci tracce presenti - 7 originali e 3 covers
- ho scelto la divertente "I Don't Mind" come emblematico saggio di un
lavoro che riesce nell'evidente intento di restituire al Blues gli attributi
originali di musica senza tempo né confini.
The Joe
Caruso Band: I Feel My Soul Free
Ideasuoni Edizioni
Musicali
Affermare
che Joe Caruso sia un appassionato di Blues potrebbe "suonare" banalmente
comune a tutti coloro che percorrono le strade che dal Delta si diramano
verso l'intero pianeta. La sua è - in verità - una passione speciale,
vissuta con modestia (suo grande punto di forza) ed al contempo ricca di un
profondo impegno intellettuale che spinge il musicista ad interrogarsi sul
significato più vero del Blues e sulle sue proprietà catartiche. E'
trascorso oltre un decennio dalla sua costituzione (avvenuta nel '90) prima
che La Joe Caruso Band entrasse in sala di registrazione; un lungo periodo
di operatività live che ha modellato il carattere del CD I Feel My Soul
Free. Un disco maturo che definisce appieno la personalità del leader e
dei compagni d'avventura. Risulta abbastanza evidente, scrutando i titoli
presenti in scaletta, la devozione verso i sovrani B.B., Albert e Freddie
King, e nei confronti degli artisti della West side di Chicago in generale.
Il CD è composto da quattro originals e da sei cover scelte tra i motivi più
popolari. Un terreno minato che apre un confronto diretto non solo con gli
interpreti originali, ma anche sul fronte della quasi totalità delle blues
band che con questi pezzi costituiscono, da decenni, il proprio repertorio.
Pur non allontanandosi dallo spirito originario dei brani, Joe Caruso
dimostra di possedere la padronanza tecnica (bravo sia come chitarrista che
come vocalist) e quella dose di buon gusto che gli consentono di non cadere
nel tranello del confronto, allestendo arrangiamenti davvero gradevoli.
Bella la versione di "Messin With The Kid" nella quale chitarra ed Hammond
dirigono il drive, così come particolarmente intriganti risultano essere
"The Thrill Is Gone" e "Woke Up This Morning", tratte dal repertorio di B.B.;
"I Got That Feeling", del mai dimenticato Albert Collins; "The Sky Is Cryin'"
ed "Help Me" (nella quale è possibile apprezzare il solo di chitarra
dell'ospite Maurizio Piccinino), rispettivamente di Elmore James e Sonny Boy
Williamson II . Sono però le composizioni originali la parte più ghiotta del
CD. Trascinante l'iniziale "I Feel My soul Free", con il duo
Caruso-Angelozzi in evidenza su un tempo r'n'b che ricorda i temi cari alla
Stax di Memphis arricchito com'è, nel finale gospel, dalla splendida voce di
Morgana Blues (guest di assoluta efficacia). P.M. Blues si snoda seguendo un
ritmo rock blues proprio dei chitarristi del nuovo corso come Robert Cray e
Joe Louis Walker. "Nonna Lucia" è un sognante strumentale in stile Louisiana
nel quale Joe riesce a restituire intatto il fascino dei ritmi creoli della
Crescent City. Chiude il lavoro "Blues For Joe", un brano firmato del
bassista Walter Monini che esalta le doti dei musicisti, qui alle prese con
un rock blues serrato che lascia nell'ascoltatore una piacevole sensazione
di... "appagamento". I Feel My Soul Free è - senza alcun dubbio da
parte di chi scrive - un lavoro ben fatto ancorché pregevole in quanto a
genuinità.
Joe
Caruso: Pattin' Juba
Crotalo Edizioni
Musicali
A poco più
di un anno dal CD d'esordio "I Feel My Soul Free", Joe Caruso ritorna in sala di registrazione per realizzare il
nuovissimo Pattin' Juba. Un disco nel quale il cantante/chitarrista
rivoluziona la sua band proponendo un trio con Pippo Matino al basso
(artista in possesso di un curriculum molto ricco) e Claudio Romano alla
batteria. Una novità che si rivela determinante nei suoni, qui orientati
verso un blues più marcato che si snoda dinamico e fluido grazie alla
bravura dei singoli ed alla voce potente e roca del leader. Gli spazi a
disposizione sono tanti e contribuiscono ad esaltare le qualità individuali.
Appare evidente che si trovino perfettamente a loro agio nella tipica (ed
impegnativa) formazione chitarra-basso-batteria, da sempre brodo di coltura
di strumentisti capaci.
Sono nove i brani presenti su Pattin' Juba per un totale di 51 minuti di
musica. Il CD si apre con una versione assai personale del classico dei
classici, quella "Cross Road Blues" di R. Johnson della quale Joe esegue una
rilettura cruda, graffiante, con un'interpretazione vocale particolarmente
ispirata. Segue un altro standard, "The Sky Is Cring", in cui sono la
chitarra ed il basso a farla da padroni: Joe sfiora la sua Gibson con
passionalità, quasi fosse un'amante, e Pippo Matino ci da un saggio delle
sue proprietà tecniche con un assolo pregevole. "The Rock" è il primo
original che incontriamo durante il nostro ascolto, un motivo firmato da Joe
Caruso. Il sound è qui orientato verso atmosfere funky jazz molto gradevoli:
uno dei momenti migliori dell'intero CD. E' il momento quindi per un brano
di Lowel Fulson, "Honey Hush!", che prelude ad una originale "Caldonia"
condotta su un Chicago shuffle che le personalizza notevolmente: "super"!
C'è poi "Messin' With The Kid" (brano al quale Joe pare particolarmente
affezionato avendolo già proposto, in una versione diversa, sul primo CD) e,
a seguire, una "Got My Mojo Workin'" condotta da una ritmica r'n'b che le
conferisce un drive davvero interessante! "Blues For Joe" è un brano di
Pippo Matino per basso solo. Un bel pezzo, suonato con sentimento, che però
mi risulta di difficile collocazione nel contesto generale (certamente
inusuale per un disco di Blues). Pattin' Juba si chiude con "Every Day I
Have The Blues", anche questa bella tosta e "saltellante".
In definitiva, ritengo che Pattin' Juba sia un momento importante nella
produzione di Joe Caruso. Sarà questa la strada che percorrerà d'ora in
avanti o ci riserverà altre sorprese? Nell'attesa che sia lo stesso Joe a
darci una risposta in futuro, godiamoci questo lavoro.
The Cell: Keepin' On, Rollin' Hard (Rep. Ceca)
Arriva
dalla Repubblica Ceca questo CD dei The Cell, "Keepin' On, Rollin' Hard".
Per onestà, devo confidarvi che conosco poco la scena musicale di quella
regione, pertanto, al di là di una sua collocazione nel contesto musicale
dell'Europa dell'Est, mi dedicherò a descrivervi il lavoro in questione, non
prima - però - di aver tracciato una breve biografia della band.
The Cell nascono a Praga nel 2002 ad opera del batterista/manager Milan
Milata e di David Gore, cantante/chitarrista originario di Lafayette,
Lousiana, e compositore, assieme a Michal Beneš (chitarrista e produttore
del disco), di tutti i brani originali. Gore è stato voce solista nel primo
CD "Are You Ready?" (2006).
In circa un decennio, The Cell sono riusciti a costruirsi un ottimo
curriculum. Hanno suonato in gran parte del continente, in America nel 2009,
e si sono esibiti da opening act per artisti e bands come John Mayall e gli
ZZ Top.
"Keepin' On, Rollin' Hard" è un disco di musica "Americana". Dal rock-blues
più potente alle delicate ballads, passa un messaggio trasversale ed
universale mai più ostacolato da "muri culturali".
Tra le dodici tracce del disco c'è solo una cover, "Nothing Better To Do",
della cantante country Lee Ann Rimes (un brano che entrò nella Top 20 di
Bilboard nel 2007. ndr).
Si parte con un southern rock alla Lynard Skynard, "Time Of My Life", che ha
un intenso sapore seventies, come la seguente "Find My Way Home", motivo
molto orecchiabile in cui le chitarre la fanno da protagoniste. Il clima,
seppur rimanendo elettrico, si sposta verso il rock blues con la ballad "Someday".
Il sound si riaccende con "Give Mer An Answer" un rock che prelude alla
splendida "Too Late To Say I'm Sorry", ballata westcoastiana che mostra la "sweet
side" compositiva del duo Beneš/Gore. Si diffonde il profumo del
country-rock, con tanto di banjo, grazie alla divertente "How 'Bout You".
Nel rock-blues "Let It Ride" fa capolino l'armonica mentre la successiva "Nothing
better To Do" mi pare essere un po' fuori contesto secondo i miei canoni di
coerenza. Non sfugge alla medesima logica "Pieces Of Wild" che sembra tratta
dal repertorio degli Sweet, una band che, pur avendo ottenuto un notevole
successo, non ha mai rappresentato esattamente i miei gusti musicali. Si
torna tra le righe sul finale del disco. "Cameron Blues" è molto bella come
la travolgente "Rock Star" che riporta alla mente i fantastici ZZ Top. Il
pezzo conclusivo è la ballad "Out Of Time", con tanto di cori alla Fleetwood
Mac, che inizia in chiave acustica per crescere pian piano.
"Keepin' On, Rollin' Hard" è un disco suonato e registrato davvero bene,
proprietà che consentono di definire The Cell come un'ottima band. Potete
acquistarlo direttamente sul loro spazio web.
Dago Red:
Folk'n Blues Memories And Others Tales
Se
avete voglia di acustico o siete, più in generale, amanti delle cose 'sincere',
questo disco fa per voi. I Dago Red professano la religione degli hoboes,
dei cantastorie bianchi e neri dal vissuto fosco e crepuscolare.
C'è competenza e gusto a volontà tra le tracce di Folk'n Blues Memories
And Other Tales, un CD registrato in presa diretta con l'ausilio di soli
tre microfoni equamente distribuiti all'interno di un combo di plettri,
pronto ad evocare - ridando loro vita - gli spiriti di personaggi leggendari
come Robert Johnson, Blind Lemon Jefferson, Woodie Guthrie. Chitarre, dobro,
banjo, contrabbasso ed armonica, diligentemente annaffiati con del sano
'rosso' (come il riferimento bacchiano nel nome del gruppo lascia
trapelare), vengono amalgamati con sapienza lasciando alla voce lo spazio
della narrazione, come nella più autentica tradizione folk. Non c'è sfoggio
di solismi ed il sound risulta magicamente limpido nella sua sintesi. I Dago
Red si esibiscono anche nei contesti riservati ai buskers, confermando
quindi una naturale propensione verso il teatro stabile della vita
quotidiana: la strada. La band nasce nei dintorni di Chieti nel '98
iscrivendo, in un arco di tempo abbastanza breve, il proprio nome ad un buon
numero di manifestazioni di vario genere. Dopo averli ascoltati risulta però
facile intuire che l'esperienza e la cultura storica dei singoli musicisti è
ben antecedente alla data di costituzione della band. In Folk'n Blues
Memories And Other Tales hanno riallacciato il filo che unisce il
reverendo Gary Davis a J.J. Cale mostrando, attraverso un percorso
sociologico-musicale lungo diversi decenni, origini ed intenti comuni a
diverse generazioni di menestrelli. Sono dieci i brani proposti. Si passa
dall'iniziale "What's For", composizione originale di Giuseppe Mascitelli, a
"32-20 Blues" e "Love In Vain" di Robert Johnson; "I Ain't Got No Home" di
Woody Guthrie; "Call Me The Breeze" di J.J. Cale. Vorrei segnalare ancora
una versione molto vibrante del traditional "Railroad Worksong" ed il
coinvolgente blues "Snapshot", firmato da Marco Pellegrini, che chiude il
CD. Folk'n Blues Memories And Other Tales supera a pieni voti il duro
"test di genuinità" guadagnandosi una posizione di rilievo nella produzione
acustica italiana dell'ultimo periodo. Menzione a parte per le belle
illustrazioni "ferroviarie" del fumettista Beppe Barbati che, avvalendosi
dei simboli propri della cultura 'on the road', riesce ad entrare nel lavoro
catturandone l'essenza.
De Ville
Blues Band: Terra Di
Blues
Sono
davvero tante le band che vivono la propria attività con il sacro sudore
delle mani e della fronte. Un lavoro che dovrebbe essere considerato
usurante e remunerato come tale. Ma purtroppo, così non è... Capita perciò
che fior di musicisti rimangano per anni ed anni nel sottobosco prima di
sbocciare. Il più delle volte ciò accade quando arriva il fatidico primo CD
che, "girando" tra le mani di recensori contattati in prima persona (senza
managers o intermediari!), riesce a raggiungere un pubblico più vasto ed
interessato.
A questa categoria di gruppi (in gran parte provenienti dalla provincia)
appartiene la De Ville Blues Band.
Una storia, la loro, che parte dai quei primi anni novanta che segneranno un
decennio di grande recupero della musica del diavolo.
Il chitarrista Pino La Rossa è, da sempre, l'anima della formazione pugliese
e, assieme al cantante armonicista Paolo Tatullo, firma la gran parte dei
brani originali (ben 8 su 10). La vocazione del gruppo è il recupero della
tradizione attraverso la ricerca di suoni ed artisti semisconosciuti per
riportarli a nuova vita.
Nel tempo, e grazie alle esperienze dei singoli musicisti, La De Ville B.B.
ha costruito un crossover assolutamente personale che ben si concretizza in
"Terra di Blues".
S'inizia con "Something Deep Inside" un divertente shuffle in puro stile
Chicago firmato dall'armonicista Paolo Tatullo. Con "Empty Bed Blues" il
sound si fa heavy (con tratti jazzy) e la chitarra svetta su una ritmica
davvero potente. "Rack'em Up", tratto dal repertorio di Johnny Lang,
accentua la vocazione swing della band: bella la voce così come il suono del
Fender Rodhes che conferisce al brano un sapore d'altri tempi. Ancora un
motivo di Tatullo, "Thai Boy", una ballad dal sapore tutto americano nel
quale si apprezza lo sfavillare dello slide sul metallo della National che
si intreccia con la chitarra elettrica suonata in maniera analoga. Ed ancora
aria di swing nella successiva "Black Baby's Night" firmata dall'intero
gruppo, come la title track "Terra di Blues", un blues con testo in
italiano, l'unico dell'album. "The Greengrocer" è il più classico dei blues
in minore che la De Ville esegue in perfetto stile. Si affaccia quindi il
funky nell'adrenalinica "Made Up", preludio al finale affidato all'arcinota
"Walkin' Blues" di Robert Johnson. Si staccano le spine ed ancora la
National e l'armonica, guidate dall'ottima voce di Paolo Tatullo, riportano
le lancette del tempo indietro di circa ottant'anni.
"Terra di Blues" è un CD suonato con grande perizia e sincerità che "cresce"
dopo ogni ascolto. Sono certo che incontrerà l'interesse di molti.
Bella la copertina che simboleggia lo spirito del lavoro con l'intensa
drammaticità del bianconero.
Gabriel
Delta & Hurricanes: I Need Your
Love (Argentina)
Blue Highway
Sull'universalità
del Blues non v'è dubbio. Il suo idioma ed i presupposti da cui nasce e
trova alimento, lo rendono assolutamente "compatibile" con tutte le
culture. Non stupisca, pertanto, che nella lontana Argentina, terra di
tango e peones, sia nato e cresciuto il Blues di Gabriel Delta. Certo, fa
un certo effetto sentir cantare in spagnolo sul ritmo delle dodici
battute, ma lo stesso avviene, tranne che in rare eccezioni, con qualunque
altra lingua diversa dall'inglese. Detto ciò, bisogna anche affermare che
Gabriel Delta è un fior di chitarrista che padroneggia molto bene i vari
stili. Nato a Buenos Aires da famiglia di origine italiana, studia sin da
bambino la chitarra con particolare attenzione per il Blues ed i suoi
derivati. Diviene così uno dei maggiori interpreti argentini della musica
afroamericana. Percorre in lungo ed in largo il grande paese
latinoamericano con il fratello batterista Fernando "Conejo" e la
band di allora, Los Delta Blues. Ed è li che, dal 1995 al 2001, produce
cinque dischi per altrettante etichette.
E' del 2001 la sua partecipazione al festival di Chicago, ovvero l'evento
più ambito nella carriera di qualunque bluesman! Nel 2003 arriva in Italia
e dà origine al trio Gabriel Delta & Hurricanes, con l'inseparabile
fratello Fernando e con il bassista Ugo Bruschi (già con Chichen Mambo e
Little Red and The Roosters). Una lunga sequela di concerti in pubs e
festival fanno si che Gabriel desti l'interesse dell'etichetta piemontese
Blue Highway che, ben presto, gli produce il nuovo lavoro I Need Your
Love.
Le undici tracce presenti sul CD sono tutte composizioni originali firmate
dallo stesso Delta. "Para Que", brano d'apertura, è un classico rock blues
che ha nello spagnolo il proprio esotismo. Segue "One A Big Man", un
Chicago shuffle che esalta le qualità strumentali di mr. Delta. Si passa
quindi a "Mas De una Noche", uno slow alla B.B. King sostenuto dal feeling
chitarristico del leader e dalla dinamica sezione ritmica. "Taxi" è un
motivo che inizia alla New Orleans per trasformarsi in un trascinante
swing. E' quindi il momento della title track, "I Need Your Love", un
brano dal fascinoso sapore jazzy che prelude al funky drive di "I'll
Always Play The Bues". Il suono del Sud di "Only With My Soul",
caratterizzato dal metallico sapore di slide, costituisce -a mio parere -
il momento più alto dell'intero lavoro. Nella texana "Solo" è facile
intravedere l'anima di Albert Collins e di tanti suoi conterranei. Ma è
ancora il jazz a far capolino tra le note di "Analia", brano arricchito
dal piano di Vinicio Crivelletto. "Dos Copas" è un gradevole rock blues ed
anticipa il gran finale affidato alla robusta strumentale "Hurricanes
Stomp".
I Need Your Love non concorrerà probabilmente ai "W.C. Handy Awards"
ma è, senza dubbio, un lavoro ben fatto e costituisce una valida
testimonianza circa la bontà del Blues extrastatunitense.
Gabriel
Delta & Hurricanes:
Roots (Argentina)
Crotalo Edizioni Musicali
A più o meno di un anno da "I Need Your Love", Gabriel Delta torna in studio
per confezionare il nuovo CD, questa volta in Italia, per l'etichetta
Crotalo. L'operazione presenta dei
contenuti che vanno ben oltre il fatto musicale in se. "Roots" è
dedicato agli indigeni argentini, intere popolazioni che versano nel grave
(e maledettamente reale) rischio di estinzione. L'evoluzione non contempla
infatti il rispetto per le piccole comunità, per le loro tradizioni, né
per la vita stessa degli uomini; si infiltra stritolando
tutto
come un rullo compressore appiattendo ed amalgamando secondo i canoni
della "globalizzazione".
Mi piace citare le parole con le
quali Gabriel presenta il disco: "Roots nasce con l'idea di arrivare al
concetto di 'essenza delle cose'. Esso vuole rappresentare il modo più
semplice e diretto possibile di fare musica, così come l'uomo deve tornare
alle sue radici spirituali e al contatto con la natura".
Il rapporto con il Blues è, questa volta, più profondo ed il legame
culturale con la musica del Mississippi risulta essere del tutto
coincidente, come chiaramente evidenziato nel titolo.
I suoni di "Roots" attingono al Blues tradizionale.
Tutti i brani presenti sul disco (tranne due) sono standard tra i più
noti. Apre un'intensa ed acustica versione di "The Red Rooster" di W. Dixon,
segnata dal suono metallico del dobro, che fa il paio con la successiva "I Can't Be Satisfied"
di Muddy. In "Kansas City" (Leiber-Stoller) si passa
all'elettrico, anche se gustoso e "moderato", con un chiaro riferimento ad
Elmore James. "Hard Times" di Ray Charles è rappresentata con
raffinati tratti jazzy: notevole l'incedere della chitarra acustica che
ben si lega alla voce tarata sulle "giuste frequenze". Bella la versione
acustica di "Stormy Monday", finalmente personale (T-Bone ne sarebbe
lieto),
con la 12 corde alla Big Joe Williams. Anche la nota "Pride
and Joy" di S.R. Vaughan è integralmente rivisitata con ottimi
risultati. Da segnalare una rockeggiante "You Got Me Running" (o, se
preferite, "Baby, What You Want Me To Do?") di Jimmy Reed che chiude il
CD. Menzione particolare per i due originals firmati Fernando Trombetta: "Sun"
è uno strumentale a base di slide, riflessivo ed intimista; più
tradizionale ma altrettanto accattivante "Only With My Soul".
"Roots" è la testimonianza di come sia possibile ridare vita ed interesse
a brani arcinoti filtrandoli attraverso il sentimento ed il proprio stile.
Un esempio per tante giovani blues band.
Il ricavato delle vendite del disco verrà in gran parte devoluto alla
"Associazione della Gioventù Indigena Argentina" con la quale lo stesso
Gabriel Delta collabora.
Dirty
Lorenz & Eddie Wilson: Lost In The Blues
Dirty Lorenz è un chitarrista di Verona che,
nonostante i soli venticinque anni d'età, ha già esperienza da vendere. Nel
corso di un intero anno trascorso in Inghilterra è entrato in contatto con
l'ambiente dei pubs frequentato da tanti artisti che portano avanti,
alternandosi dai primi anni sessanta, la forte tradizione del british blues
che ha
"contaminato" l'intera Europa dell'ultimo mezzo secolo.
Lorenzo si è distinto, in quel contesto così... affollato, per classe e
maturità ed ha stretto rapporti di lavoro con diversi musicisti.
Particolarmente intenso si è rivelato quello con il cantante ed armonicista
Eddie Wilson e la sua band assieme ai quali ha realizzato "Lost In The
Blues", il lavoro del quale ci occupiamo, ma non prima di aver sottolineato
che il nome di Dirty Lorenz è ben conosciuto anche negli ambienti del Blues
italico per via delle tante manifestazioni cui a preso parte.
Una rapida scorsa ai titoli del disco evidenzia l'ampia partecipazione di
Eddie Wilson in veste compositiva: la metà dei brani porta la sua firma. Nel
disco sono anche proposte tre cover famosissime: "Rollin' And Tumblin'" di
Muddy, in una gradevole versione elettrica; "Crossroad" di R. Johnson, con
un arrangiamento rock-blues adatto alle escursioni chitarristiche di Lorenz;
e, proprio in fondo al CD, "Need Your Love So Bad" di Little Willie John, un
motivo che ha fatto la fortuna di innumerevoli cantanti e solisti e qui
riproposto con un mood alla B.B. King.
Il blues "Liza's Eyes Blues", che apre il disco, è dinoccolato quanto
divertente anche se mette in evidenza lo stile, per così dire, naif di
Wilson all'armonica; "Don't Leave Me, Baby" è un duro rock blues nella più
classica tradizione del genere; certamente più divertente e personale
risulta essere il jazzy nella successiva "Hit The Road". La bella voce di
Stephanie Wison guida le note di uno swing anni trenta che si chiama "Miss
Celie's Blues" seguito da "Jigsaw Puzzle Blues", un brano del chitarrista
Danny Kirwan già Fleetwood Mac band. Lo shuffle si affaccia con "How Many
More Nights", sostenuto dalla poderosa chitarra di Lorenzo che si esalta in
"I Need All Yor Lovin'", un blues con un ostinato che ricorda "Rock Me Baby"
ma che sfocia in un rock che caratterizza, del resto, gran parte di questo
album.
Mi sento di consigliare "Lost In The Blues" particolarmente agli amanti
delle sonorità dure e, più in generale, a chiunque, ed in qualunque momento,
abbia voglia di scatenarsi alzando il volume dell'impianto di casa.
Dick Farrelly & Mat Walklate: Keep It Clean (UK)
Dick
Farrelly e Mat Walklate sono due artisti britannici molto legati alla musica
acustica, al punto tale da proporre uno tra i più tradizionali album
"chitarra, voce ed armonica".
La loro
collaborazione nasce in un club di Amsterdam dove i due si trovano a jammare
assieme. L'amore - come si dice - scocca fulminante ed il disco diventa ben
presto una realtà. 9 ore e 1/2 di registrazioni live... et voilà!
Dick
Farrelly è un musicista irlandese di Dublino con un ricco curriculum fatto di
collaborazioni con nomi altisonanti quali: Van Morrison, Mick Taylor, Mary
Coughlan e Noel Redding tra gli altri. Mat Walklate è un armonicista inglese di
Manchester dalle grandi doti tecniche e con una voce molto gradevole. Il CD in
questione si chiama "Keep It Clean" e contiene 10 tracce che,
alternando composizioni originali a covers e traditionals, creano un viaggio
estremamente piacevole e, per quanto consenta la formula in duo, abbastanza
vario, tra blues, country, jazz...
Vorrei
segnalarvi la cover di "24 Hours", impreziosita da un bel solo di
cromatica di Mat; la successiva "C Jam Blues", celeberrima
composizione ellingtoniana in una più che rara versione acustica (!); ed
ancora: l'iniziale title track; la magnifica "Bag's Groove", uno
standard dell'immortale vibrafonista Milt Jackson; l'energica "Bottle Up
And Go" e... potrei andare avanti ancora ma preferisco che a scoprirne il
contenuto siate voi stessi. Potrete appagare la curiosità (nella speranza che
sia riuscito a stimolarvela...) chiedendo "Keep It Clean"
direttamente a Dick e Mat sullo spazio web: www.matwalklate.co.uk.
Four
Fried Fish & Flyin' Horns:
Love Can Change Everything
Velut Luna
Hanno
atteso per tanti anni i Four Fried Fish prima di dare alle stampe il primo
disco. Il lavoro (del quale ci siamo occupati) ha poco più di due anni ma
ecco, a sorpresa, arrivare il nuovo "Love Can Change Everything". Pare
proprio che i nostri abbiano preso gusto alla sala di registrazione e, di
conseguenza, che la vena creativa del duo Ranghiero-Mazzaron si sia accesa
in modo irrefrenabile.
Nel disco non c'è traccia di una cover: qui è tutta farina del loro sacco! I
pesciolini, piuttosto che "fritti", appaiono vivi e vegeti... Personalmente,
ritengo che il segreto stia nel gusto con il quale i F.F.F. si accostano
alla musica in generale; ben al di la di coercitive e, alla lunga,
stressanti esibizioni di stile, il sound appare fresco e fruibile nella sua
totalità. Una sorta di cool drive che la bravura e la "misura" dei musicisti
riescono a proporre con particolare raffinatezza. I riferimenti, inoltre,
sono talmente tanti da rendere la "pietanza" appetibile a palati dai gusti
diversi.
"Love Can Change Everything" conferma quanto di buono i Four Fried Fish
avevano mostrato nel primo CD e si propone come la logica e coerente
evoluzione di un linguaggio fatto proprio.
S'inizia a ritmo di jazz con la strumentale "Something Will Change Tonight"
firmata da Fabio Ranghiero; un profumo che si respira anche nella seguente "Call
Me Tonight", ma questa volta l'atmosfera ci porta verso i blues dei grandi
crooners texani.
Introdotta dai bravissimi Flyin' Horns (compagnia fissa della band), arriva
la titol track del disco, "Love Can Change Everything", nella quale si
manifesta in modo evidente la matrice del sound dei F.F.F.: la musica
americana di "classe", sia questa nera che bianca.
Il drive inconfondibile alla Willie Dixon ci proietta verso il blues di
Chicago con la bella "Think Twice (Nothing Is All Right)", motivo che
Flamiano Mazzaron e Fabio Ranghiero dedicano alla memoria del leggendario
songwriter della Chess. In "Goin' Down" tutto si fa rarefarro; il suono è
guidato da una ritmica ossessiva sulla quale si muovono con estrema
leggerezza e tanto feeling chitarra acustica ed armonica. Mi piace ancora
segnalarvi il jazz elettrico di "Tear My Mask" (che a me ricorda certe arie
proprie del genio di Frank Zappa), il suadente cool di "Seventh Floor" e la
conclusiva "Rain In Paris Road". Un finale acustico guidato da chitarra e
pianoforte nel quale fa la sua apparizione anche il flauto, strumento
inusuale nel blues classico ma che conferma lo spessore dei musicisti e, più
in generale, gli ampi orizzonti compositivi.
Disco da ascoltare assolutamente!
Four
Fried Fish & Flyin' Horns: Catfish For Breakfast
Flamiano
Mazzaron e Fabio Ranghiero, animatori della band veneta Four Fried Fish,
hanno atteso circa un quarto di secolo prima di approdare alla fatidica
decisione di depositare la propria musica per i posteri riproducendola sul
recente CD "Catfish For Breakfast". Un lavoro ben ragionato che non ha certo
le caratteristiche del disco voluto sulla scia dell'entusiasmo, molto in
voga tra le band di primo pelo per la semplicità di realizzazione, ma che,
il più delle volte, è destinato a divenire un oggetto nel quale non ci si
riconoscerà in futuro.
Maturi e consapevoli, i Four Fried Fish ci propongono una serie di loro
composizioni che musicalmente si collocano su quella labile linea di confine
che passa tra il Jazz ed il Funky/Blues, popolata da una nutrita schiera di
illustri maestri sia neri che bianchi.
Supportati dai Flyin' Horns, i "quattro pesci fritti" non lesinano di certo
arrangiamenti abbastanza elaborati che nulla tolgono però all'immediata e
gradevole fruizione del sound nella sua totalità.
"Catifish For Breakfast" è composto da dieci tracce tra le quali si scorgono
soltanto due cover: un omaggio a Muddy Waters, grazie alla personale
rilettura della classica "Rolling Stones", e "Three Cool Cats" a firma del
mitico duo del rock'n'roll Leiber-Stoller. Il resto è frutto
dell'ispirazione dei succitati Flamiano Mazzaron (chitarra e voce) e Fabio
Ranghiero (tastiere).
"So Long", brano d'apertura, è un blues dalla ritmica dolcemente funky al
quale piano e fiati conferiscono uno squisito jazz feel. Il pezzo è
impreziosito dall'armonica dell'ottimo Marco Pandolfi, guest presente in
diversi momenti del CD. "Homeway Blues" è un gustoso swing che rievoca le
big band ed i grandi crooners dei '40. Lo stile chitarristico nello
strumentale "Blues For Mr. G", assieme all'inusuale presenza del flauto, ci
portano verso territori decisamente jazz. Si torna al Blues con "Rolling
Stones" di Muddy, con l'armonica di Pandolfi che si fa ancora notare. Il
funky/jazz di "Making Love" anticipa il coinvolgente slow blues "Honey And
Bread". H5N1 (tristemente noto come il ceppo letale del virus dell'aviaria,
ndr.) è un cool jazz strumentale nel quale il sax la fa da padrone come
nella migliore tradizione. "Three Cool Cats" è, come segnalato all'inizio,
un brano di Leiber e Stoller portato al successo dai Coasters nel 1958 e qui
riproposto dalla bella voce di Tiziana Guerra. Il blues tradizionale di "Monkey
Blues" (la chitarra pare rendere un particolare omaggio a B.B. King) prelude
alla finale "Maybe A Man", una ballad tutta americana, di quelle destinate a
rimanere in mente.
"Catfish For Breakfast" è, in definitiva, un bel lavoro, molto articolato,
che riunisce le esperienze dei musicisti in una sorta di intrigante
compilation delle passioni.
Joe
Galullo and the Blues Messengers: The Blues Is Back!
Blue
Melody
The
Blues Is Back segna
il ritorno di Joe Galullo in sala di registrazione. Musicista lombardo,
divenuto cittadino del mondo nel corso degli anni, Joe è l'esempio
dell'artista vero che ha dato un'impronta precisa a tutta la sua vita
rendendola scevra dalle becere "regole" borghesi. E' cresciuto tra
Amsterdam, Londra e Bologna; ha suonato nei metrò, nel corso degli anni
sessanta, "facendosi le ossa" sulla strada. La sua storia è quella di un
uomo che, seguendo l'istinto, ha trovato nel Blues l'espressione più consona
per manifestare la propria essenza. Definirlo chitarrista, nonostante sia un
vero virtuoso della sei corde, mi pare riduttivo; la sua voce è altrettanto
"importante" e concorre, in egual misura, a definirne la caratura artistica.
The Blues Is Back (CD prodotto dalla Blue Melody, etichetta fondata
dallo stesso Galullo) si apre con "I Feel I've Got The Blues", uno shuffle
nel quale chitarra ed organo conducono il drive come nella migliore
tradizione del blues elettrico. Si passa quindi allo slow in minore "I'm So
Down", con la chitarra fiammeggiante e di notevole impatto (a me ricorda
quel grande e sfortunato musicista che è stato Roy Buchanan) in risposta
alla voce "vissuta" e pregna di feeling: uno dei momenti più intensi
dell'intero disco. Il rock blues di "Down On The Road" ci riporta con i
piedi per terra, giusto per battere il tempo! Ancora uno slow, "The Lord Of
Blues Is Gone", anticipa la divertente "Whisky And Woman", un motivo dal
sapore seventies, di quelli destinati ad accendere l'ottimismo
nell'ascoltatore. Si vola in Louisiana con "Daw In New Orleans", un motivo
che si rifà alla celebre "Got My Mojo Workin'" di watersiana memoria. "Hard
Times" è una canzone di Ray Charles (unica cover presente sul CD) restituita
intatta nel fascino originale ed impreziosita da una chitarra piena di
sentimento. "Sweet Pretty Baby" è un West Coast blues dal marcato sapore
swing (alla "Flip, Flop And Fly", per intenderci): ottimo il piano di
Alessio Raffaelli. In "Slow Slide Blues" il suono si fa più "arrugginito",
su un tempo alla Jimmy Reed. Con la divertente "Kukurukuku" (nella quale Joe
Galullo inforca l'acustica) si chiude in bellezza il ritorno al Blues di un
grande musicista. Il valore complessivo del disco è davvero eccellente per
contenuti e qualità. I Blues Messengers viaggiano come un treno ed i suoni
appaiono ottimamente calibrati. In un momento così poco brillante per il
blues americano, The Blues Is Back si colloca su livelli di valore
assoluto, tanto da renderne auspicabile la distribuzione oltre oceano.
Guitar
Ray & The Gamblers: Poormen Blues
Cami Zack Music
Il Blues italiano
conferma di vivere un momento davvero speciale. Anche il 2008 si apre
all'insegna di nuove produzioni che testimoniano l'elevata qualità dei
nostri musicisti, sempre più apprezzati da blasonati artisti d'oltreoceano e
d'oltremanica che contribuiscono - non poco - a sdoganare lo spaghetti
blues. Guitar Ray & The Gamblers, formazione ligure dai lunghi trascorsi, si
avvale delle composizioni e della produzione del famoso chitarrista inglese
Otis Grand nel nuovissimo CD "Poorman Blues".
L'avventura tra la band e mr. Grand (già avviata nel precedente lavoro "New
Sensation") ha, in realtà, origini più lontane. Henry Carpaneto, tasterista
dei Gamblers, ha fatto parte della Otis Grand big blues band per qualche
anno, e spesso anche il resto del gruppo ha accompagnato il chitarrista sul
palco. Ma le collaborazioni sono tante ed illustri: Jerry Portnoy, Sonny
Rhodes, Jumping Johnny Sansone, Keyth Dunn, Fabio Treves e Paolo Bonfanti.
Il chitarrista e vocalist Guitar Ray (aka Renato Scognamiglio) si è formato
con i grandi chitarristi elettrici, difatti (come per la maggior parte dei
suoi colleghi) i suoi riferimenti artistici sono: i tre King (B.B., Albert e
Freddie), T-Bone Walker, Albert Collins, Magic Sam. Con personalità, Ray
conduce la band ben coadiuvato dal bravo tastierista Henry Carpaneto
(nominato agli European Blues Awards del 2005 per la categoria Best Blues
Piano player) e dalla solida e quadrata sezione ritmica affidata a Gabby
Dellepiane al basso e Marc Fiulano alla batteria. Il suono complessivo
risulta essere ben strutturato, libero da superflue forzature compositive e
strumentali. Manny Carozzo al sax e Syl Cafaro alla tromba arricchiscono e
completano il sound sia negli r'n'b che nei gustosi momenti jazzy.
"Poormen Blues" può apparire, ad un ascolto distratto, un buon disco al
quale però mancano quei momenti di, cosiddetto, primo impatto. Solo dopo un
attento passaggio nel lettore si svelano le doti dei singoli ed il raffinato
groove. Guitar Ray & The Gamblers esplorano, assaggiando qua e la in punta
di palato, ciò che di meglio il menù del Blues propone, supportati dalla
onnipresenza di Otis Grand (che figura nel CD anche nelle vesti di
arrangiatore).
8 dei 12 brani che compongono il disco sono a firma di Grand. Tra tutti,
vorrei segnalarvi la ballad strumentale "Everything Is Gonna Be Alright",
con tanto di lap steel alla David Lindley, ed il rock'n'roll "Shoulda Had
Some More" con il piano in bella evidenza. Merita, infine, una menzione
speciale la coinvolgente cover di "One Track Lover" di Jimmy McCracklin.
J.Sintoni: A Better Man
Avevo
già celebrato le lodi del chitarrista J. Sintoni per il debutto discografico
avvenuto nel 2008 con "The Red Suite". A quattro anni da allora, eccomi
ancora qui a presentarvi il nuovo lavoro "A Better Man".
Che Sintoni sia un uomo migliore (giocando col titolo...) è un'affermazione
che devo prendere per buona non conoscendolo personalmente; ciò che risulta
apprezzabile da tutti è, in realtà, la sua maturazione artistica. Se
all'esordio il rock blues si univa a temi di matrice swing, oggi il
crossover risulta, se possibile, ancora più ampio e godibile. Musica
americana nella migliore accezione. Definirei "A Better Man" un disco in
bianco e nero; non nel senso crepuscolare (a cui la metafora spesso allude)
ma perchè la sua cultura non si ferma al blues ma si allarga verso altri
spazi, a volte non proprio direttamente derivanti dalla musica del diavolo.
Si parte con uno shuffle (proprio la title track) che chiarisce sin dalle
prime note, il ruolo che la chitarra avrà nel prosieguo. Ed infatti ecco
arrivare il rock blues "Don't Wanna Be Nice", il tipico brano "a tutta
birra" che accende l'entusiasmo. Il clima si rasserena con "Consequence",
grande ballad, che ricorda i gruppi "on the road" americani dei gloriosi
seventies (così, di getto, a me torna in mente il mitico Bob Seger...).
Avanti con uno slow blues in minore, "The Lady Is A Carpenter (Hot Glue)",
molto simile a "The Thrill Is Gone" con un retrogusto ritmico alla Albert
King: notevole! Ancora uno slow di qualità, "Love Should Never Lose", ci
restituisce il feeling che J. Sintoni riesce ad emanare ed anticipa un funky
jazz che non ti saresti aspettato a questo punto. Ma "Good Wibe" è di quei
brani che ti sbalzano letteralmente dalla sedia e mettono in risalto le
qualità d'insieme della band, protagonista di una "barriera di fuoco"
invalicabile...
"A Better Man" torna quindi a farsi introspettivo con "The Wish" per
assumere caratteristiche acustiche in "Get Down" che inizia con le sole
chitarra e voce: un'altra ballad tutta americana. Il finale si avvicina con
uno shuffle alla texana, "Two Feet", che precede - coerentemente - la
conclusiva "Song For Stevie & Jimi", vero e proprio atto d'amore di J. verso
i suoi ispiratori. C'è anche spazio per una ghost track che, naturalmente,
lascio a voi scoprire. Voglio solo dirvi che si tratta di una parentesi
"personale" ma altrettanto suggestiva. Best compliments!
J.Sintoni:
The Red Suite
Album
d'esordio per il chitarrista J.Sintoni. Classe 1974, J.Sintoni è nato a Cesena
dove, sin da giovanissimo, ha mosso i primi passi nel mondo musicale. La
maturazione artistica è però avvenuta a Pistoia (la città più Blues d'Italia)
dove si è trasferito sul finire degli anni novanta. In quel brodo di cultura che
il celebre festival toscano ha generato, J. Sintoni non ha avuto difficoltà ad
inserirsi. Due apparizioni a Pistoia Blues - nel 2000 e nel 2003 -, diverse
collaborazioni ed una registrazione acustica che l'ha fatto conoscere in giro,
costituiscono un brillante curriculum vitae.
Avendo tra le mani "The Red Suit" non può certo sfuggire che tutte le
composizioni sono originali; oltre cinquanta minuti di sano rock blues che
cattura l'ascolto per la naturalezza che lo rende "leggero", privo di quelle
forzature che tanti chitarristi propinano a piene mani.
J. Sintoni, nonostante la giovane età, dimostra ampia maturità ed una solida
cultura Blues. Deve aver ascoltato parecchie registrazioni, di epoche diverse, e
nelle sue corde è possibile scorgere riferimenti ai maggiori interpreti della
chitarra elettrica. Ritengo che il Texas blues sia lo stile maggiormente
presente nel suo bagaglio tecnico; un sound che la formazione in trio
contribuisce, senza dubbio, a stimolare. Nelle sue dita ci sono anche tracce di
swing, a conferma di una discreta ampiezza di interessi.
Se si vuol trovare a
tutti i costi un lato debole, è possibile individuarlo nelle qualità canore che,
nonostante l'impegno assai lodevole, risultano - a tratti - poco personali.
Intendiamoci, il problema è comune alla stragrande maggioranza dei bluesmen non
americani (o, più in generale, degli artisti bianchi) che, forse, non lo
ritengono tale. Un particolare che, comunque, poco o nulla toglie alla qualità
complessiva del CD che si apre alla grande con la "texana" Tired Of Keep Movin'.
Il motivo pone ben in tiro la fune che lega assieme le composizioni e
rappresenta un saggio del J.Sintoni style che nella successiva Won't be Back
trova una logica prosecuzione. In Forget The Time fa capolino quello swing che
in Relaxin' si manifesta in maniera più disinibita. Voodoo Woman è un chiaro
omaggio a SRV mentre appaiono rock blues più "di maniera": Changed and Better, A
Place To Feel Free, Special Light e What We Steal. L'unico slow concesso è
proprio la title track The Red Suit. Qui la chitarra può muoversi in campo
aperto e conferma quanto di buono già detto sul conto del chitarrista di
Pistoia. Il CD si chiude con la strumentale Swing Out This, un gradevole motivo
di marca westcoastiana.
Jona's Blues Band: Back To
Life
Sifare Edizioni Musicali
Jona's
Blues Band è sinonimo di longevità nell'italico circuito del Blues. Sono
assieme dal lontano 1985 con la medesima formazione e vantano collaborazioni
con nomi illustri della musica tra i quali: il leggendario clarinettista
jazz Tony Scott, i cantanti Harold Bradley ed Herbie Goins, l'armonicista
Chicago Beau, oltre che diversi artisti - più o meno noti - di casa nostra.
Sono tantissime le manifestazioni ed i festival cui la Jona's ha preso
parte; tra tutte l'ottima performance a Pistoia Blues nell'edizione del '94
al fianco di: Homesik James, John Mayall, Rory Gallagher, Joe Louis Walker e
George Clinton.
Solo due anni prima si erano anche concessi una capatina nel mondo del
cinema con il brano "To Be Happy" (da "Check It Out" del '92), inserito nel
film "Maledetto il giorno che ti ho incontrato" di - e con - Carlo Verdone.
Il comico romano ricambia qui l'amicizia suonando la batteria nel hard rock
(per usare un'espressione in voga negli anni 70) "Trouble" di Chris Farlow e
proponendo al mondo della musica il figlio Paolo, chitarrista di buone
qualità. L'altra guest star che ha raccolto ben volentieri l'invito della
Jona's è stato il grande Renzo Arbore che, per l'occasione, canta una
versione di "Beale Street Blues" alla maniera di Louis Armstrong.
"Back To Life" è il nuovo CD, un lavoro costato circa due anni di fatiche e
che ha visto impegnati una miriade di ospiti che l'hanno ulteriormente
impreziosito con una rara varietà di contenuti, rendendolo sempre più
gradevole, ascolto dopo ascolto. L'abbondanza del materiale registrato ha
persino costretto la band capitolina ad una dura selezione che, comunque,
sfiora i 75 minuti dl tempo totale.
Suggestivo il brano d'apertura, una work song tradizionale eseguita dalla
voce scura di Harold Bradley accompagnato da cori e percussioni a cura dei
Prenestina Beaters. Altrettanto affascinante la sempreverde "Bring It On
Home To Me" di Sam Cooke, qui proposta con un mood alla B.B. King. Gli Extra
Horns e l'Hammond di Marco Meucci intessono un tappeto sul quale svetta la
voce di Fulvio Tomaino che supera brillantemente una prova nient'affatto
semplice (tanti e tali sono stati i grandi crooner ad interpretarla...). "Tam
Tam Blues" di Marco Meucci è un brano alla Ry Cooder, con tanto di dobro ed
armonica acustici ed una introduzione afro che torna qua e la conferendole
un notevole appeal. "I Got No Money" è uno shuffle in stile Chicago a firma
di Gianni Franchi (bassista ed elemento fondatore), cantato molto bene da
Paola Ronci. Nel rock'n'roll "Livin It Down" di Delbert Mc Clinton si fa
apprezzare la voce di Mario Insenga (batterista dei Blue Stuff e bluesman di
lungo corso). Herbie Goins, voce nera da anni trapiantato in Italia, offre
il suo contributo con il r'n'b "Born To Loose". "It Might" di Gianni Franchi
ed Andrea De Luca (che ha composto buona parte del materiale originale) è un
motivo jazz-rock che ricorda i migliori Blood Sweet And Tears: decisamente
pregevole il lavoro svolto dalla chitarra di Rodolfo Maltese. C'è anche lo
spazio per un omaggio ad Hendrix con una versione di "Voodoo Chile" che non
sfigurerebbe per nulla in un disco dei Defunkt. Sul finale torna Harold
Bradley con lo standard degli standard "Basin' St. Blues".
La Jona's Blues Band conferma, con quest'ottimo "Back To Life", quanto il
Blues suonato in Italia sia di livello elevato grazie a produzioni
caratterizzate da molteplici soluzioni, pur conservando un'assoluta coerenza
stilistica.
Billy
Jones: Prime Suspect For The Blues
Ciborg-Blue
Recording Co.
Billy
Jones mi ha contattato qualche tempo fa proponendomi la recensione del CD
che trattiamo in questa sede. Confesso che non conoscevo nulla sul suo conto
ma, da un primo ascolto dei samples presenti sul suo sito, non è stato
difficile scoprire un artista molto particolare. Assieme a Prime Suspect
For The Blues, Billy mi ha inviato un CD contenente spezzoni di
spettacoli (concerti in clubs, interviste ed apparizioni televisive). Se il
disco riferisce chiaramente della cifra stilistica del Nostro, vederlo
all'opera è parecchio più esplicativo. Assolutamente divertente ed
aggressivo al tempo stesso, Billy Jones è cantante, chitarrista e showman di
grossa levatura e consumata esperienza. Il suo è un sound a base di funky,
soul, rap, blues e r'n'b, proposto senza soluzione di continuità ed elusivo
verso qualunque catalogazione. Musicista da sempre, ha militato in passato
con Little Johnny Taylor, Vernon Garret, Calvin Levy; ha condiviso il set
con Denice La Salle, Willie Clayton, i Bar Kays, e tanti altri. Ha operato
per qualche tempo nella Beale Street, a Memphis, entrando in contatto con
B.B. King e Rufus Thomas. La sua musica è trascinante e dal 'dance feel'
irresistibile. Non è un caso che Billy si avvalga anche di una tastiera
dalla quale tira fuori rumori, fischi, piccole deflagrazioni... Anche la
voce è, a volte, distorta elettronicamente. Tutto ciò che fa spettacolo è
proprietà naturale di Billy Jones che si muove tra forsennati r'n'b e larghi
slow blues con una fluidità unica, catturando lo spettatore che
difficilmente riesce a star fermo assistendo ai suoi show. Prime Suspect
For The Blues è tutto ciò: una sintesi perfetta del verbo musicale del
cantante e chitarrista americano. Non è stato facile selezionare un brano
tra le 15 tracce (tra le quali non esistono momenti di flessione). Ho scelto
la cover di "Don't Answer The Door", tratta dal repertorio di B.B. King, un
blues classico dal quale riusciamo ad evincere le grosse capacità artistiche
di cui è dotato.
Billy Jones è, in definitiva, tra i migliori artisti del nuovo Blues
underground; un salutare ricambio che sottopongo alla particolare attenzione
dei promoters italiani.
Liuzzi, Palmisano, Speciale: BlueSpecial
Corrieri Cosmici
Arriva
dall'Africa Il vento che soffia da Sud: è lo stesso Scirocco del deserto che
ha alimentato la vita dei padri dei padri del Blues. Se c'è un posto più
"vicino" al Delta, questo è il Mediterraneo con il suo intenso profumo di
sale ed i riverberi accecanti del sole. Da una delle propaggini che guardano
più da vicino al Continente Nero, la bellissima Puglia, arriva il Blues del
trio Liuzzi, Palmisano, Speciale. I tre musicisti costituiscono il nucleo
storico della Complanare Blues Band, formazione abbondantemente nota nel
panorama bluesistico meridionale e già protagonista del CD "Fatto Di Blues".
L'animatore è da identificarsi nella persona dell'armonicista e cantante
Martino Palmisano, personaggio molto conosciuto in tutt'Italia per il suo
sincero ed ostinato spirito mecenatistico: un autentico punto di riferimento
per l'intero movimento Blues pugliese. Notevoli le sue doti di "imbonitore
di folle". La voce calda e profonda, l'armonica tagliente ed una forte
personalità, ne fanno un frontman di razza. Ricordo ancora la sua esibizione
al festival di Caserta (nel 2004) quando improvvisò un monologo su Robert
Johnson, esilarante e profondo al tempo stesso, riuscendo a coinvolgere il
pubblico con il carisma di un predicatore battista. Cristina Liuzzi e Franco
Speciale sono una famiglia di bluesmen: vocalist lei, chitarrista lui.
Cristina è dotata di una voce molto personale, dalle tinte scure, che non
ammicca all'emulazione delle rabbiose voci nere (con il rischio di ottenere
risultati spesso infelici, come accade a molte sue colleghe) riuscendo così
ad esprimere una dimensione propria. Franco è un ottimo chitarrista ed il
suo fraseggio, proprio di scuola jazzistica, è testimone dei lunghi
trascorsi in quel campo.
BlueSpecial è una parentesi che i nostri aprono sui temi più cari: una
miscela di suoni acustici ed elettrici. Si inizia con due omaggi ai
progenitori della musica del Diavolo: "Come On My Kitchen" di R. Johnson,
eseguita con ossequiosa fedeltà, e la rurale "Pick A Bale O' Cotton" di
Leadbelly. La penna di Palmisano apre la lunga serie di originals presenti
nel CD con un Blues in "volgare" (di scuola Blue Stuff) dal titolo "Disoccupation
Blues" che si lega coerentemente alle altre sue composizioni: "Ciò Lo
Stress" e "Black Bloc Blues". " 'Notte" è invece una delicata ninna nanna
per armonica. Il duo Liuzzi-Speciale è protagonista di alcuni titoli di
ottimo spessore: "Special Thanks" è cantata "a cappella" da Cristina; "After
Sex" è un blues molto raffinato; in "Don't Blame It On The Blues" Martino
"acchiappa" il Green Bullet e, qua e la, fa capolino un delizioso Hammond. "Bye
Django" è uno strumentale scritto da Franco Speciale che mette in risalto le
sue capacità di swinger. Completano il lavoro "Woke Up This Morning" di B.B.
King ed una personale rilettura di "Summertime" di Gershwin.
In definitiva, BlueSpecial è un disco maturo e, soprattutto, consapevole del
"rispetto" che il Blues richiede. Ascoltare per credere!
Lou and
the Blues: Mexicali Blues
P.L.F. Production
L'aria
Tex-Mex che sembra volersi insinuare sia dal titolo che dalla copertina di
questo CD non inganni alcuno sul suo reale contenuto, sarebbe un limite per
Daniele "Lou" Leonardi protagonista ed ideatore dell'ottimo Mexicali
Blues. Il poco più che ventenne chitarrista senese, qui alle prese con
il secondo lavoro della band Lou and the Blues, ha orizzonti ben più ampi
del classico Chicago style o del Delta sound, sembrando in realtà più
avvezzo a suoni frizzanti ed 'aperti' costruiti su un tappeto steso da
chitarre, tastiere e cori. Seppur giovanissimo, Lou ha già maturato
esperienze ben consistenti, sufficienti a garantirgli un'ottima proprietà di
linguaggio che non stenta a manifestare in modo più che convincente pescando
da Jimmy Smith e Wilson Picket a S.R. Vaughan ed Albert Collins, oltre che
da un certo cool di marca yankee. L'iniziale "Mexicali Blues" è il brano
d'impatto, di quelli in grado di fornire la giusta propulsione all'intero
lavoro. Il richiamo a Stevie Ray è tanto evidente quanto garbato. Con "3
Nights And 3 Days" (un accenno, anche se solo nel titolo, alla watersiana "Forty
Days and Forty Nights") Chicago fa capolino su un'impronta di shuffle che
richiama alla memoria il Buddy Guy più ispirato. "I Want Let You Dawn" si
gioca su atmosfere notturne. La voce di Alice Bardini fornisce un imprinting
decisamente jazz che piano, hammond e chitarra, sostengono a turno con
appassionata complicità. Il rock più ruvido è presente in brani come "Love
Fever" e "Start Of Something Good", anche se i toni rimangono piacevolmente
'moderati'. "Honey Smhoney" si snoda attraverso un ritmo a la New Orleans
con l'hammod in ottima evidenza. "I Ain't Gonna Let You Breack My Heart
Again" (famoso hit di Bonnie Raitt) è una bellissima canzone per voce
(eccellente) e pianoforte e fa il paio (chitarra acustica qui in
sostituzione del piano) con "Let Him Fly" di Patty Griffin. Bravo e maturo,
Lou sa circondarsi di musicisti in grado di esaudire gli escursus stilistici
da lui stesso proposti. Citazioni particolari per Alice Bardini, vocalist
sinuosa anche se poco incline a 'ruggire' sui Blues più serrati, e per
Matteo Abbado, onnipresente e discreto al tempo stesso ma abile a mettersi
in evidenza quando il brano lo richiede.
Ritengo Mexicali Blues un lavoro maturo, professionale e sinceramente
godibile, già in grado di anticipare un futuro brillante per Lou and the
Blues.
Melody
Makers: Melody Makers
Solo Musica
La
storia dei Melody Makers è abbastanza recente anche se il percorso artistico
di Attilio Gili ed Emanuele Fizzotti parte da molto lontano. Quello di
Attilio ha inizio in pieni anni sessanta con un gruppo chiamato UH, di cui è
stato il basso e la voce solista. Erano gli albori; il 45 giri era il
supporto più diffuso (primo vero simbolo del nascente consumismo musicale) e
Pippo Baudo, con il programma televisivo Settevoci, costituiva uno dei pochi
trampolini di lancio per giovani artisti. All'epoca si 'sfondava' con
riproposizioni in italiano di celebri brani americani ed inglesi, di quel
rock nascente che stava dilagando anche nel nostro paese. Era l'epoca dell'
r'n'b ed anche gli UH carpivano l'ispirazione da Otis Redding e James Brown
oltre che da stelle del rock'n'roll come Elvis e Jerry Lee Lewis. Anche il
blues però esercitava il suo fascino grazie alle gesta di John Mayall e
Peter Green (emuli a loro volta del tipico suono del Delta elettrificato da
Muddy e Sonny Boy). Relativamente più recente la storia di Emanuele Fizzotti,
già chitarrista con la Treves Blues Band e Cristiano De Andrè. Il musicista
è un vero talento dello strumento ed i suoi studi presso il Guitar Institute
Of Technology di Los Angeles (dove ha conseguito il diploma), oltre che gli
stage con artisti del calibro di Scott Henderson e Joe Diorio, ne sono
chiara testimonianza. Emanuele ed Attilio hanno incrociato il loro cammino
fondando gli Zip Fastners. Con questa formazione hanno partecipato a Sanremo
Blues '91 riscoprendo l'amore comune per la musica del diavolo. Solo
recentemente, con i Melody Makers la struttura ha assunto quei connotati
presenti sul nuovo CD che, come accade sovente nelle opere prime, si chiama
come la band. Diciamo subito che il lavoro è suonato e registrato
magistralmente, ricco com'è di arrangiamenti che vanno dall'r'n'b sostenuto
da Hammond e fiati a momenti stringati, in stile Delta, con Dobro e voce.
C'è inoltre autentico swing e boogie in stile Texas blues. Le nove
composizioni originali sui tredici brani presenti sul dischetto sono
un'ulteriore manifestazione di creatività. Le cover sono "What I'd Say" e "I
Belive To My Soul" di Ray Charles, "Flip, Flop & Fly" (celebre la versione
di Big Joe Turner) e la johnsoniana "Dust My Broom". Se c'è un appunto da
fare, questo è rivolto alla grande (forse eccessiva) varietà di stili che,
se da un lato dimostrano la poliedricità dei musicisti, dall'altro fanno
venir meno una delle caratteristiche fondamentali nell'allestimento di un
lavoro, quello che comunemente viene definito progetto artistico. Melody
Makers è un CD che piacerà a molti, ne sono più che certo, e se vuole
essere una sorta di biglietto da visita è più che ricco. In futuro sarà però
opportuno mettere la tecnica al servizio di suoni più personali e meno
divaganti.
Mhmm:
Do Not Disturb
Do Not
Disturb" è uno dei lavori più interessanti che mi siano capitati tra le mani
negli ultimi tempi. Un disco che porta con se parecchi elementi di
originalità rendendolo unico nell'attuale discografia Blues nostrana.
La più evidente sta proprio nel supporto: il caro, vecchio vinile, divenuto
un autentico oggetto di culto per audiofili, riproposto sempre di più dalle
grandi major e scelta editoriale mirata di etichette dai volumi d'affari
minori come la lodevole Banksville records.
Anche il nome degli Mhmm è inusuale (oltre che impronunciabile);
un'espressione onomatopeica che a me ricorda la classica esclamazione di
"gradito assenso" nel tradizionale linguaggio dei cartoons.
Il disco è l'opera prima della band di Vercelli, anche se i musicisti che la
animano sono dei veterani in grado di vantare già diverse esperienze
discografiche e lunghi anni di attività sotto altre "insegne" (Arcansiel,
Sado).
Per le registrazioni, Paolo Baltaro (compositore di tutti i brani
originali), Gianni Opezzo (arrangiatore), Sandro Marinoni e Boris Savoldelli,
si sono alternati tra lo studio KMP Castel di Vercelli ed il KinkiMalinky di
Londra. La scelta del supporto analogico si è rivelata decisamente felice
conferendo al disco un caldo suono vintage, esaltato da precedenti
"passaggi" attraverso apparecchiature Hi-End e registratori a bobina super
veloci. Il risultato così ottenuto, e senza ulteriori interventi, è stato
riportato sul CD (fornito in allegato senza alcun costo aggiuntivo).
E veniamo ai contenuti. "Do Not Disturb" è stato pensato come un concept
album ambientato in un fumoso club americano, con tanto di voce roca e
brilla (quella del DJ londinese Roger Balfour) che commenta, tra le tracce,
volti e situazioni li presenti. Sugli otto brani che compongono il disco,
ben sette sono composizioni originali. Gli Mhmm si consentono una sola
cover. Si tratta della leggendaria "Woodstock" della mai dimenticata
songwriter canadese Joni Mitchell, rigenerata da un impeccabile blues drive
che, nel contesto generale, la rende davvero esaltante. A mio avviso, il
vero punto di forza della band sta proprio nelle voci eccellenti dei singoli
musicisti, oltre che nella cura per gli arrangiamenti. L'iniziale "I Don't
Mind" è un classico rock-blues che Boris Savoldelli rende particolarmente
caustico e coinvolgente. Stessa cosa vale per "When The Blues Is Falling
Down On Me", anche se questa volta il brano è uno slow blues. "The Bridge" è
un motivo dall'andamento dinoccolato che ricorda certe perle di J.J. Cale
pur mantenendo una sua identità grazie ad un sapiente arrangiamento di
fiati. American rock'n'roll tutto da ballare in "Because I'm Down": bella la
gestione delle dinamiche. Lo shuffle "Something Beautiful" è caratterizzato
dalla voce grintosa di Paolo Baltaro. "If Mary Had A Face", è un "torrido"
slow e fa da preludio al brano finale "Goodnight Paris", una ballad che
evidenzia tutto l'amore degli Mhmm per il West Coast sound dei '70 (Crosby,
Stills, Nash & Young, su tutti).
Un disco che vi consiglio per "rifarvi" le orecchie da certe banalità
etichettate, troppo spesso, come Blues.
Angelo Morabito: Shadows Of Blues
Il nome di Angelo
Morabito è sinonimo di musica a Messina da circa quarant'anni.
Suona chitarra ed armonica ed è prolifico songwriter, anche se
tanti l'hanno sempre apprezzato per la sua voce: un timbro scuro e roco che manifesta tutta
la grinta di cui è capace.
Dico subito (per correttezza deontologica) che Angelo è un caro amico
con il quale ho anche una, seppur discontinua, partnership
artistica. Angelo infatti vive a Bergamo da qualche anno ma
torna spesso nella terra natia alla quale è legatissimo: non è
un caso che il titolo del disco d'esordio, "The Hidden Bridge",
abbia sottolineato la diaspora nata in città circa la realizzazione
del ponte sullo Stretto di Messina.
Tracciare il curriculum di Angelo occuperebbe buona parte di
questa pagina, mi limiterò pertanto ad evidenziare la sua
partecipazione alla prima versione italiana del musical teatrale "Jesus
Christ Superstar", con la regia di Massimo Piparo, e l'esibizione
al "Festival Internazionale di Musica Mediterranea", svoltosi
nel novembre del 1985 ad Atene e Marsiglia, in cui ha
rappresentato l'Italia.
Nella formazione artistica di Angelo sono evidenti le tracce
delle grandi voci dell'errenbì dalle quali ha tratto ispirazione. Il nuovo corso, che questo "Shadows Of Blues"
rappresenta appieno, mostra che i suoi interessi si sono
allargati anche verso il jazz dei crooners degli anni 40/50. Un
compito
che svolge egregiamente, accompagnato da musicisti di prim'ordine,
in assoluto tra i migliori dell'intera Sicilia, un vero
supergruppo (come si sarebbe definito un tempo) creato per
l'occasione ma attivo e partecipe alla stesura del lavoro.
Il disco è stato registrato a Capo d'Orlando (ME) nel 2003 e
gelosamente custodito nel cassetto per ben nove anni. E ciò la
dice lunga sulla difficoltà che incontra chi si avventura in
produzioni discografiche Blues in Italia dove non c'è ombra di
mecenati e dove quei pochi che lo fanno per mestiere non sempre
sono dotati di buone orecchie..., difficoltà che vanno
moltiplicate per dieci quando si parte dal Sud.
"Shadows Of Blues" è bellissimo! e - posso assicurarvi
- il
mio non è affatto il giudizio di un amico compiacente:
ascoltare per credere. Sono certo che piacerà a molti, anche ad
appassionati dai palati diversi, grazie alla capacità di Angelo e dei
musicisti di spaziare tra le "ombre del Blues"
con profonde competenze storiche
e di stile. "Quattro stelle" le merita tutte.
E' possibile richiedere il CD all'indirizzo shadowsofblues@email.it
.
Dave Moretti Blues Revue: That's Swing!
Ritorna
su queste pagine l’armonicista torinese Dave Moretti. L’avevamo
lasciato al disco d’esordio “Bluesjob” (recensione in archivio) con il
quale si presentava al pubblico dispensando il suo divertente
funky-swing di chiara matrice westcoastiana. Ricordo di averne vantato
le doti strumentali, soprattutto alla cromatica (utilizzata con
frequenza e più consona allo stile), che appaiono ancora più mature nel
nuovo lavoro “That’s Swing!”.
Se "Bluesjob" era stringato nella
strumentazione (anche se la Blues Revue si è mostrata efficacissima in
quel contesto), Moretti affronta la nuova prova avvalendosi anche del
sassofono di Alfredo Ponissi, dell’organo suonato da Alberto Gurrisi,
dei cori affidati alle brave Sublimes e del piano a cura di Maurizio
Spandre. Il progetto infatti risulta più mirato nelle intenzioni del
precedente e rappresenta un'evoluzione nel corso artistico
dell’armonicista (credo che l'affermazione esclamativa del titolo sia
la palese attestazione di questa volontà).
Personalmente riconosco a Dave Moretti delle doti particolarmente
brillanti nella composizione e soprattutto nel modo così pertinente di
proporre le dinamiche proprie delle big band degli anni trenta che
suonavano nelle sale da ballo i prodromi di quell'errenbì che sarebbe
dilagato nei decenni successivi. Tre covers su dieci brani proposti in
“That’s Swing!” testimoniano inoltre la prolificità del songwriter. Vi
confesso l'imbarazzo che provo nel segnalare i brani "portanti" del CD:
in realtà sono tutti da ascoltare. Mi è piaciuto tantissimo "Just Like
A Dog", un motivo ammaliante che cresce trascinato dall'organo. Ed
ancora: la travolgente title track; "Bad", il più tradizionale degli
r'n'b, nel quale Dave esibisce una notevole "prima posizione"; "Cattle
Raiding", scritta a quattro mani con il chitarrista Damir Nefat,
caratterizzata dai cambi di tempo ed abbellita dalle voci delle
Sublimes... Tra le covers senz'altro l'iniziale "Good Mornin Judge" che
entra direttamente in quello che sarà il tema del CD, e "I Walked
Away", in cui compare, con un solo alla sua maniera, il chitarrista
Maurizio Pugno, ospite di tutto rispetto.
Concludo con le lodi (per nulla gratuite, vi assicuro) segnalandovi
anche il Moretti cantante: una delle voci più "credibili" dell'italico
Blues (chi è "del mestiere" sa di cosa parlo e dell'annosa polemica
legata all'argomento...).
L’intento di divertire - e divertirsi! - viene fuori da ogni singolo
solco (per usare un termine desueto ed improprio ma sempre suggestivo…)
e conferisce al disco un buon potenziale radiofonico che ne allargherà
la fruizione ad una platea dai gusti più ampi.
Dave
Moretti Blues Revue: Bluesjob
"The
Joint Is Jumping" recita il titolo di una canzone degli anni trenta di
Fats Waller, un'espressone idiomatica riferita al divertimento ed al ballo che ben
rappresenta lo spirito più autentico del West Coast Blues. E non
potrebbe che essere siffatta la colonna sonora di un'area geografica da
sempre idealizzata
nell'immaginario collettivo come un paradiso per divi hollywoodiani.
Artisti come: Hollywood
Fats, Little Charlie and The Nightcats, Rod Piazza, William Clarke (solo per citarne
alcuni), hanno ripercorso le strade segnate da grandi musicisti texani
come: T-Bone Walker, Percy Mayfield, Lowell Fulson, Charles Brown, che -
a loro volta -
hanno esportato in riva al Pacifico (sdoganandolo per il pubblico
bianco), un crossover che miscela elementi di Blues,
Jazz e R&B, dando origine al cosiddetto jump & jive, diffuso in tutta
l'America nera dal grande Louis
Jordan.
A questa corrente del Blues fa riferimento la revue del giovane ma già
svezzato armonicista
torinese Dave Moretti che, in fatto di musica, ha idee ben chiare. Il suo stile armonicistico,
con quel suono così riverberato, mutuato da Little Walter Jacobs e
George "Harmonica" Smith, risulta abbastanza singolare nel
panorama nazionale. La presenza sul disco di sei brani originali su
dieci palesa inoltre le doti di Dave quale autore.
La scelta delle covers è pertinente e la loro rilettura decisamente gradevole: il doo
wop di "Baby You're Rich" rende omaggio alla stella sempre
splendente
di Percy Mayfield; l'arcinota "Hallelujah I Love Her So" e la
strumentale "Rockhouse" costituiscono un atto d'amore nei confronti di
Ray Charles (uno degli idoli di Moretti), e "Up The Line" di Little
Walter attesta la "presenza" (peraltro latente nell'intero CD) del
re indiscusso della blues harp.
Tra le composizioni originali vorrei segnalare "One Way Ticket",
un errenbì caratterizzato della cromatica e dalla voce di Moretti, ben
impostata su registri funky; lo slow "Love On The Phone", con il solo di
chitarra di Andrea Preto (uno degli ospiti nel disco); la swingante
"Beauty Queen" e "No Man's Land", quest'ultima un dixie in acustico con
tanto di banjo e contrabbasso, suonati rispettivamente da Andy Penington
e Simone Bellavia.
Assolutamente da menzionare il chitarrista della Blues Revue, Damir
Nefat, e la frizzante ritmica guidata da Emanuele Pavone al basso e
Alessio Sanfilippo alla batteria.
In conclusione, ritengo "Bluesjob" un lavoro
allegro e "rigenerante" che, nella sua omogeneità, esalta
l'essenza ludica del Blues senza mai scadere nel banale.
Mrs.
SIPPY: New, Old And... All That Blues
Asserire
che Paolo Ganz sia sinonimo di armonica blues in Italia è non soltanto
corretto ma - senza nulla togliere ad altri antesignani dello strumento -
soprattutto doveroso. I suoi metodi sono sotto gli occhi di tutti: dagli
scaffali dei negozi di dischi a quelli delle librerie. Dal 1986 (anno della
pubblicazione del suo primo metodo) quasi tutti gli aspiranti armonicisti
hanno soffiato con l'occhio rivolto verso il manuale di Ganz e l'orecchio
teso alle cassette dimostrative allegate. Paolo, che è persona assai
modesta, dice di aver mutuato le varie tecniche direttamente dall'ascolto
dei maestri neri. E' comunque riuscito - cosa tutt'altro che semplice - a
codificare, rendendoli intelleggibili per tutti, i molti suoni
dell'armonica. La sua ricerca non si è fermata a questo strumento, Paolo è
anche chitarrista ed i suoi studi hanno avuto degli sviluppi anche con i 'plettri'.
Dopo anni di latitanza dal Blues (non certo di immobilità artistica), il
musicista veneziano è tornato con la band Mrs. Sippy assieme al chitarrista
Alex Perzolla - che lo stesso Ganz definisce come il promotore
dell'iniziativa -, al bassista Fabio Benedetti e con Andrea Scopelliti alla
batteria. Insieme hanno realizzato un mimi CD, composto da cinque brani, il
cui titolo è New, Old And… All That Blues. La scaletta recita i
seguenti titoli: "Someday Baby" di S. John Estes, "Halleluja I Love Her So"
di Ray Charles, "Sally Brown (is back in town)" di Alex Perzolla, "Off The
Wall" di Little Walter e, per finire, "Tintarella di Luna" (!!!) di De
Filippi - Migliacci (un vecchio hit degli anni sessanta riproposto in chiave
shuffle). Il suono complessivo rimanda ad un Blues rockeggiante fatto di
suoni ruvidi e decisi che esalta - grazie anche ad una registrazione
efficace - le capacità dei musicisti. L'orecchio inevitabilmente cade
sull'armonica di Ganz che, a dispetto della sua notorietà, svolge un ruolo
che ben si amalgama, senza mai esagerare, con il sound d'insieme. New Old
And… All That Blues è una sorta di 'presentazione' ma prelude ad un
lavoro ben più corposo che è già nei programmi della band. Nel frattempo
ascoltate questo CD richiedendone copia direttamente a Paolo Ganz.
Martino Palmisano
& Complanare Blues Band: The Last Train For The Clown
Martino Palmisano è un grande! possono
confermarlo i tanti musicisti italiani che lo conoscono. Chi non ha
avuto ancora questa possibilità, non può far altro che fidarsi delle
mie parole. Martino è da considerarsi una sorta di poeta maledetto del
Blues. Sempre così vicino alla tradizione ma, al tempo stesso,
fondamentalmente atipico. Non si è mai fatto ingabbiare da compromessi
e... non le ha mai mandate a dire a nessuno: la sincerità (in tutte le
accezioni) è il suo forte! L'amore per il Blues è la religione che
professa da tempo immemore, scrivendo su varie riviste, trasmettendo
musica alla radio e - naturalmente - suonando.
Mi sono occupato di lui, su queste pagine, qualche anno fa per la
pubblicazione del CD "BlueSpecial" a firma Liuzzi, Palmisano, Speciale
(vedi archivio).
In "The Last Train For The Clown" l'armonicista/cantante brindisino si
ripropone in trio rispolverando il nome della sua band storica, la
Complanare Blues Band.
In questa circostanza è affiancato dal
bravissimo
chitarrista Corrado Lucherini e da un altro nome molto noto dello
spaghetti blues, il bassista e compositore di Caserta Max
Pieri.
Le registrazioni sono tutte a firma di Martino Palmisano
con la sola concessione per due covers, proposte come bonus track ed a
lui particolarmente care: "Walkin' Blues" di R. Johnson e "Key To The
Highway" (nella versione di B.B. Broonzy). I nove originals sono stati
registrati dallo stesso autore nel 2008 e quindi riposti nel cassetto
in attesa dei fatidici tempi migliori. Forse quel cassetto sarebbe
rimasto ancora chiuso se, poco tempo fa, l'amico Max Pieri non l'avesse
"aperto"
consigliando a Martino di riconsiderarne la pubblicazione dopo averlo
arricchito col basso ed
altre diavolerie percussive di cui è maestro. Così è riuscito
nell'intento.
Il lavoro, rigorosamente acustico, ha nella figura del Clown la fonte
d'ispirazione. Martino lo accosta al musicista (quindi a se stesso):
entrambi si esibiscono
per appagare la voglia di divertimento del pubblico, nascondendo la
propria tristezza, le proprie ansie, che in realtà ci sono ed escono
fuori, come le lacrime, nei momenti di solitudine. C'è un velo di
malinconia in tutto ciò, una caratteristica che accompagna qualunque
artista nella sua vita. Da un lato c'è la voglia sempre latente di
piantarla una volta per tutte e dall'altra la fatale attrazione del
canto delle sirene... Ciò accade in particolare a chi vive con grande
sensibilità, dibattendosi tra il sogno e la realtà che non sempre gli
corrisponde.
Martino Palmisano scrive diversi testi utilizzando un
vernacolo pugliese stretto che rappresenta (assieme al napoletano)
quello che, personalmente, ritengo il dialetto più consono al Blues.
In conclusione, vorrei sottolinearne le doti vocali che riescono ad
irretire per quel timbro oscuro e roco, spesso sussurrato, che arriva
dritto al cuore.
"The Last Train For The Clown" è un disco Blues "profondo" e sincero e
ne consiglio vivamente l'ascolto!
Gaetano
Pellino Band: First Love
Crotalo Edizioni Musicali
L'etichetta
Crotalo continua nella meritoria opera di divulgazione del blues nostrano
sia con le compilation della serie "Babe, Senti Come Suona Il Mio Blues"
(dedicate a composizioni in lingua italiana ed in dialetto) che con le
innumerevoli produzioni di singoli artisti e bands.
Gaetano Pellino, musicista bolognese, può considerarsi uno dei veterani
avendo già registrato tre album per la scuderia del serpente. Chitarrista,
bassista, Sound engeneer, con una vita piena di impegni sul fronte della
musica a tutti i livelli, inizia la sua avventura agli albori degli anni
'80. Ho scrutato la biografia rendendomi conto che per elencare l'intero
spettro dei suoi interessi non sarebbe certo stato sufficiente questo
spazio. Un dato però lo si evince: Gaetano non è un chitarrista "votato" al
Blues; piuttosto le "dodici battute" sono una delle tante componenti del suo
background artistico.
Anche il nuovo lavoro "First Love" (il cui titolo è ben rappresentato dalla
tenera foto di copertina) è una miscellanea di stili. Il brano d'apertura è
proprio la title track, un rock/blues nel quale s'intuisce una profonda
riconoscenza al mai dimenticato Stevie Ray Waughan. Ancora di marca Texana è
la successiva "The Woman At The Backdoor", il cui drive ricorda quello dei
mitici fratelli Gibbons (meglio noti come ZZ Top). Si passa quindi al
rockabilly con la divertente "Mad Dog Like You" (riproposta in conclusione
nella versione mono!). In "The Legend Of The Eagle" il clima si fa arso, con
lo slide tagliente che evoca il sole implacabile delle grandi distese
americane. Bella ed intensa la ballad "The Shadows Of The Night", nello
stile dei più grandi songwriter a stelle e strice.
"Why Don't We Celebrate?" è un brano - come si dice - d'atmosfera nel quale
si possono cogliere alcuni degli spiriti guida di Gaetano Pellino. Fa la sua
apparizione, tanto discreta quanto incisiva, l'armonica di Tommy Cole. Non
manca qualche incursione nel western più autentico con la celebre "Ghost
Riders In The Sky" (unica cover presente!) e "Western Tango".
Il suono complessivo del CD ha un sapore decisamente vintage. Un
accorgimento voluto dall'autore che, come dicevo all'inizio, è anche un
sound engeneer di notevole spessore ed esperienza.
Una citazione, in conclusione, per la sezione ritmica formata da Stefano
Resca alla batteria e dai bassisti Ugo Bruschi e Nick Sesterzio.
PG Petricca: At Home
Pierluigi
Petricca, chitarrista e cantante abruzzese, è già noto ai bluesofili
italiani per aver dato vita nel 2005 al Papaleg Acoustic Duo assieme a
Marco Tinari (anch'egli chitarrista). I due hanno svolto una gran
quantità di concerti in Italia ed all'estero (USA, Finlandia...) e
realizzato due CD: "Railroad Blues" nel 2006 e "Back To Mississippi"
nel 2008. Da veri bluesmen hanno suonato dappertutto, dalla strada ai
centri sociali ed in buona parte dei blues festival italiani con nomi
illustri del circuito internazionale. Dal
2011 PG si
propone da solo e collabora
con diversi gruppi (il suo nome è già presente in questo
"archivio" al fianco di Paola Ronci e della Jona's Blues Band nei
rispettivi album). E' recente la pubblicazione del CD "At Home"
concepito in puro
stile down home. E proprio a Son House,
Mississipi Fred McDowel, Bukka White, Skip James (per citare alcuni dei
suoi artisti preferiti), si ispira nelle composizioni. Lo fa in maniera
estremamente ortodossa, con il suono inconfondibile della resofonica metallica - decisamente sobria in virtù delle sue ottime doti strumentali - spesso "sostenuta" da cassa e charleston. La voce di Petricca non è da meno. Ho detto varie volte circa la difficoltà
che tanti cantanti italiani incontrano nel confrontarsi con il Blues,
particolarmente con quello acustico, laddove la voce è praticamente
"nuda" (un po' come camminare in mutande all'ora di punta in centro
città...). Petricca non ha problemi, si esprime con estrema naturalezza
e senza la necessità di improbabili imitazioni.
"At Home" conferma quanto detto sinora: è un disco asciutto,
senza "additivi aggiunti", composto da 10 tracce, nove originali più il
traditional "Motherless Children". Assieme ai brani scorre la storia
artistica di PG Petricca in un continuum che non concede spazio ad
alcun neologismo. L'unica cosa che lo distingue da un disco d'epoca è
la registrazione che non porta con se quei rumori di fondo che hanno
reso particolarmente affascinante questa musica. Ma ciò, oltre ad essere
inimitabile, poco conta vista la natura assai personale del lavoro nel
quale non mi addentrerò onde evitare banali ed inutili accostamenti e
per lasciare a voi il piacere di scoprirlo pian piano per goderne il
buon sapore vintage. Tra i miei titoli preferiti: l'iniziale "Who Can
Tell Me", The Promise Land" e la conclusiva title track.
Personalmente ritengo "At Home" sincero e coraggioso. Mi risulta
infatti difficile pensare all'interesse di chi non ha affinità col
genere (sono certo che PG l'abbia messo in conto). Di contro, chi è
davvero appassionato troverà nel disco pane per i propri denti.
Maurizio Pugno featuring Sugar Ray Norcia:
That's What I Found Out!
Maurizio
Pugno, al suo esordio discografico da solista, assesta un colpo fulminante
alla classifica dei migliori album blues prodotti nel 2007 collocandosi decisamente al
vertice con questo eccellente "That's What I Found Out!" che, considerato
il periodo non particolarmente felice del blues americano, lo proietta
verso confini molto ampi.
Il chitarrista umbro si presenta alla nuova esperienza con un notevole
viatico, fatto di collaborazioni importanti, e rodato sul campo da diverse
tournée in tutta Europa. La lunga partnership con l'armonicista Rico
Migliarini - prima nella Wolves Blues Band, oggi in Rico Blues Combo - non
gli ha impedito escursioni in altri contesti. Senza voler qui
snocciolare tutti i passaggi del curriculum di Maurizio (disponibile,
peraltro, sul suo sito), mi pare doveroso citare alcuni momenti salienti
della sua carriera: le collaborazioni con l'armonicista Mike Turk, con il
cantante Tad Robinson, con la cantante/armonicista Kellie Rucker e con il
chitarrista Dave Specter, assieme al quale ha in programma due tour europei.
In questo album il Maestro (così viene chiamato da sempre Pugno) affianca
il suo nome a quello di Sugar Ray Norcia, celebre cantante-armonicista
americano che
molti ricorderanno frontman dei Roomful Of Blues. Al di là del contributo
in veste di "featuring" (così come viene presentato sul CD), Norcia ha partecipato alla stesura di
ben nove tra i quindici brani
presenti.
"That's What I Found Out!", prodotto da Jerry Hall per l'etichetta
americana Pacific Blues Recordings (!), è stato registrato presso l'antico
teatro comunale di Gubbio ed è assolutamente perfetto nei suoni (spesso
arricchiti da una numerosa sezione fiati) e negli arrangiamenti, oltre che
brillante e vario nei contenuti. L'apertura è affidata all'Hammond di
Alberto Marsico con "Opening Act" (firmata dallo stesso tastierista), una
sorta di presentazione strumentale alla Jimmy Smith che lascia trapelare
le intenzioni facendo da preludio ad una
raffica di brani del duo Pugno-Norcia. Si passa dal jive di "That Crazy
Girl Of Mine" e "When My Father Met Charlie's Uncle" al cool westcoastiano
della title track "That'ts What I Found Out!". "Take It All Back Baby"
ricorda il compianto Johnny Adams: notevole la chitarra che si muove
sinuosa su un raffinato tappeto intessuto dall'Hammond. L'american rock'n'roll
di "Oh Louise!" e le atmosfere sixteen di "Fine Long Legs" sono la
conferma della coerente poliedricità di quest'album che non conosce
momenti di stanca.
Tra le poche cover presenti - quattro in tutto - vorrei segnalare la magnifica
rilettura di "I Love The Life I Live" di W. Dixon e la conclusiva "The
Preacher", omaggio al leggendario compositore e pianista Horace Silver.
The
Red Wagons blues band: Jumpin'
With Friends!
"Jumpin'
With Friends" conferma il 2012 come un'ottima annata per il
Blues nostrano, nonostante la band romana dei Red Wagons
abbia effettuato le registrazioni in circa un quinquennio di attività (2005-2009).
Il
confronto con gli americani che hanno impreziosito il disco
grazie alle rispettive partecipazioni, è da considerarsi come l'ennesima
dimostrazione che il Blues italiano ha, ormai da tempo,
raggiunto livelli altissimi e le collaborazioni con artisti
affermati, come in questo caso, finiscono per confermare ed esaltare le
eccellenti qualità dei nostri musicisti.
I Red Wagons si formano a Roma nel 1998 dalla fusione tra
gli Hardboilers ed i Jollyrockers.
La prima esperienza discografica, "Ullalla Boogie", risalente ad
otto anni fa, segna l'inizio di un'intensa attività on the road che
trasporterà i "vagoni" in gran parte d'Italia e d'Europa. Le
esperienze maturate in tanti concerti, li hanno avvicinato ad artisti d'oltreoceano,
alcuni dei quali regolarmente cooptati in
studio per la realizzazione di quello che, pian piano, sarebbe
stato un progetto portato a compimento.
Data la notevole quantità di tracce (ben 16) e di guest stars, ho
pensato di parlarvene raggruppando i brani per ospite, in
rigoroso ordine di apparizione.
Già nel titolo, "Jumpin' With Friends" la dice lunga sullo
spirito che lo anima. Le danze
hanno inizio con un ritmo latino dagli accenti swing grazie ad una
versione di "Huckluboogie" di "Pee Wee" Crayton a cura del
chitarrista brasiliano Igor Prado che è presente nel disco anche
con un'eccellente "Party Girl", del mai dimenticato Aaron "T-Bone"
Walker (davvero trascinanti i fiati: ottimo il solo del sax
tenore), e con lo shuffle a tutta chitarra "I Want To Love
Someday". Segue il chitarrista Junior Watson ("The King of weast
coast Blues"), qui sempre accompagnato dal sassofonista di
Detroit Gordon Beale, con lo swing "Big Mamou" di Smiley Lewis
(leggenda di New Orleans dei primi del 1900), quindi "Let's Get
Hig" di Rosco Gordon, impreziosita dal piano di Marco
Meucci; ed ancora il mambo in "Congo Mombo", e la conclusiva
"Chicago Cha Cha" di Lefty Bates. E' la volta di Sugar Ray
Norcia, l'armonicista del Connecticut è qui presente con tre
brani: "My Baby Quit Me", un autentico classico del gigante
della "Crescent City" Doc Pomus; "Girl From Idaho", uno shuffle
di sua composizione, e "Kidney Stew", magnifico standard di
Eddie "Cleanhead" Vinson. Tra gli ospiti stranieri
spiccano infine i nomi dell'armonicista californiano Lynwood
Slim, qui nelle vesti di cantante, e del pianista newyorkese
Mitch Woods con una versione di "Blue Light Boogie" di Louis
Jordan che, da sola, sintetizza l'aria che si respira nel disco.
"Jumpin' With Friends" sarà fortemente apprezzato dagli amanti
dello swing e degli arrangiamenti anni 40/50 (tra questi anche
il sottoscritto) ai quali è assolutamente consigliato.
Paola
Ronci è una cantante nata ad Avezzano ma cresciuta artisticamente a
Roma. Si è fatta le ossa con artisti e bands della capitale, tra cui la
Jona's Blues Band con la quale si è esibita per qualche tempo (è
presente anche nel nuovo CD "Back To Life" - recensione in archivio).
E' del tutto normale che certe frequentazioni, unite ad una naturale
passione per il genere, l'abbiano convinta a battezzarsi nelle acque
fangose del Mississippi. Sono certo (scusate la presunzione) che abbia
ascoltato, divorandoli, una grande quantità di dischi di Blues Ladies
storiche con rispetto ed amore totale. Certe variazioni nella sua voce
ricordano in diversi casi le cantanti della prima ora come Memphis
Minnie e la mia adorata Elizabeth Cotten, in altri le migliori voci
femminili dell'America bianca. Dico ciò non certo per alludere ad un
celato tentativo di imitazione bensì per riconoscere a Paola il merito
di proporre le sue canzoni con uno stile praticamente perfetto, senza
alcuna esagerazione e soprattutto con la gentile pacatezza di chi ha le
idee ben chiare e la sicurezza nei propri mezzi, ovvero ciò che fa la
differenza!
"Full Of You" è il titolo del suo primo disco: un mix ragionato di
originals e covers in cui propone il meglio di se.
"Before I Begin To Scream" è il primo pezzo, un motivo molto "liquido",
costruito su un tessuto intrecciato da dobro, contrabbasso ed una
batteria creativa, in gran parte condotta sui piatti, su cui Paola
canta la sua canzone con una voce sussurrata e di rara bellezza. Ancora
a firma di Paola Ronci un blues tra i più tradizionali con dobro e voce
in primo piano che, se non fosse per la registrazione moderna, potrebbe
essere datato 1925; e la seguente "The House By The Sea" nella quale si
ritorna ai suoni che già avevano caratterizzato l'apertura del disco,
con il colore di quell'altra America capace di proporre suoni "evoluti"
se paragonati all'aspro gusto rurale dei blues che abbondano nel disco:
da "Come On In My Kitchen" ad "Hard Times Killing Floor Blues" di Skip
James. Non mancano gli omaggi a grandi donne quali Bessie Smith, Billie
Holiday e Memphis Minnie con autentiche perle tra cui "Billie's Blues",
"Me And My Chaffeur Blues" di M. Minnie, "Muddy Waters - A Mississippi
Moan" di Bessie Smith, un motivo di stampo jazzistico introdotto - non
a caso - dal pianoforte, abilmente suonato da Danilo Ricciardi, al
quale si aggiunge il sax tenore a cura di Francesco Cipollone. Bella
come sempre la voce della leader che è autrice anche del brano che da
titolo al disco: "Full Of You". C'è spazio anche per Janis con "Turtle
Blues".
Il motivo di chiusura è un'escursione musicale per dobro con Pierluigi
Petricca sugli scudi. Un lavoro in generale eccellente il suo, sia al
dobro che alla chitarra acustica; sempre al centro del suono, merita
una menzione.
La carriera di Paola, oggi all'esordio discografico, sarà di sicuro
piena di soddisfazioni se affronterà ancora la musica con la
professionalità e la passione che la accompagnano in questo ottimo CD,
registrato ad Avezzano (Aq) e mixato a Memphis, TN.
Roots
Connection: Animystic
Bagana Records
Ho ricevuto
questo disco già da qualche settimana e confesso di aver passato gran parte
del mio tempo ad ascoltarlo e riascoltarlo con l'intento di carpirne
l'essenza. Animystic non è un album da primo impatto né un lavoro di Blues
nel senso più comune, bensì il testamento di un artista di ampie
ispirazioni, il chitarrista e cantante Enrico "Mad Dog" Micheletti, e della
sua avventura con la band Roots Connection.
Micheletti è purtroppo scomparso il 4 dicembre del 2008 all'età di 57 anni,
proprio al culmine di una carriera ricca di esperienze e collaborazioni
illustri (Memphis Slim, Rory Gallagher, John Lee Hooker, Champion Jack
Dupree,...).
Nato a Bolzano, è stato quello che si definisce un girovago. Lascia ben
presto l'Italia, assetato di conoscenze, viaggiando per buona parte d'Europa
ed in seguito alla volta di Canada, Stati Uniti ed India. Sarà in
particolare il karma del grande paese asiatico ad influenzare le visioni
mistico musicali di Enrico che utilizzerà spesso il sitar nelle sue
composizioni.
Micheletti è stato da sempre guidato da una profonda interiorità secondo la
quale ogni cosa è opera divina e la musica una sorta di mediazione tra Dio e
l'uomo, presupposto fondamentale e trasversale a tutte le religioni, da
quelle primitive a quelle più praticate ai giorni nostri. Non è quindi un
caso che il titolo del CD, Animytstic, scaturisca della fusione dei termini
animistico e mistico.
La musica del mondo, filtrata attraverso sequencer e sintetizzatori,
costituisce il crossover creato dai Roots Connection, ed il Blues, in questa
logica, ne è parte integrante così come: reggae, ska, funky...
La band nasce a Reggio Emilia nel 2000. Enrico Micheletti incontra Fabio
Ferraboschi e Fabrizio Tavernelli, ed i tre scoprono da subito una passione
comune: il Blues del Delta. Ma l'approccio dei musicisti con le celebri
composizioni di Leadbelly e Robert Johnson non è propriamente roots. Il
bernoccolo della sperimentazione li accomuna ed è perseguendo la ricerca di
suoni personali che, nel 2002, registrano il primo disco, Roots Connection,
cui seguiranno una quantità di concerti.
Dopo la lunga premessa, necessaria per tratteggiare la personalità di Enrico
Micheletti e fornire una chiave di lettura della musica dei Roots
Connection, veniamo al disco in oggetto.
Animystic è composto da 10 tracce, 5 originali (tutte firmate
Micheletti-Ferraboschi-Tavernelli) e 5 covers rivisitate e filtrate secondo
uno stile del tutto coerente. Tra i brani originali vi segnalo: l'iniziale
Wake Up, un ritmo ossessivo che il sitar riconduce alle atmosfere degli
Stones di Their Satanic Majesties Request; Done Gone, motivo bluesy alla
J.J. Cale caratterizzato dallo sferragliare del dobro, e la splendida ballad
The Only Face. Tra le covers: Im Going To Life The Life I Sing About In My
Song di Tommy Dorsey, brano portato al successo da Mahalia Jackson e qui
degnamente reinterpretato da Lucia Tari (ex Tinturia); Hard Time Killing
Floor di Skip James, riproposto in chiave reggae, e la sognante e conclusiva
ballad Rings Them Bells di Bob Dylan (dall'album Oh Mercy) narrata dalla
grande voce di Alberto Morselli (già Modena City Ramblers).
Rudy Rotta: Blue Inside
ZYX music
Rudy
Rotta è artista noto per la sua lunga militanza nel mondo della musica e per
le sue tante, illustri, collaborazioni. Oggi è, senza dubbio, uno tra i
pochi artisti italiani conosciuti ed apprezzati anche all'estero, e non solo
in Europa. Menzionare le stars con cui ha lavorato e gli eventi ai quali
Rotta ha preso parte sarebbe un elenco troppo lungo da sviluppare in questa
sede; rivolgo pertanto un invito ai più interessati affinchè ne
approfondiscano la conoscenza visitando il suo bel sito.
Chitarrista eccellente, Rotta ha ottenuto la consacrazione al suo talento
grazie alla Fender Europe che gli ha dedicato un modello "signature" della
Stratocaster, un riconoscimento che possono vantare solo i più grandi
strumentisti al mondo.
Particolarmente intensa è stata l'avventura vissuta da Rotta al fianco del
grande organista londinese Brian Auger con il quale ha realizzato ben cinque
tour e registrato "Capured Live" nel 2003 (disco pubblicato due anni dopo).
Il suo stile, da sempre "aggressivo", lo colloca in quella sottile linea di
confine che divide la musica nera d'ispirazione "classica" da un rock più
articolato con il quale esprime il meglio di se stesso.
"Blue Inside" è il tredicesimo album di una discografia il cui esordio (un
vinile dal titolo "Real Live") risale al 1988, anche se all'epoca aveva già
mosso i primi passi tra la Svizzera (paese d'adozione) e Verona.
Tutti i brani del CD sono composizioni di Rudy Rotta, molti di questi
realizzati con l'ausilio dell'artista texana Elizabeth Lee e della
chitarrista di New York Daborah Kooperman (di casa in Italia).
S'inizia con "Lady", canzone d'amore con un intro gospel registrato in
chiesa della bravissima Robin Brown da Atlanta che prelude ad un attacco
degno dei migliori John Hiatt e Tom Petty. "I Benn Up I Been Low" è un rock
cadenzato che riporta, anche questo, ai grandi rockers americani. "Got A
Hold On Me" è una ballad che l'arpeggio del piano, accompagnato dalla
chitarra acustica, rende particolarmente suggestiva. "Had A Friend" è uno
slow molto classico guidato dallo splendido suono dell'Hammond a cura di
Michele Papadia; davvero ispirato il solo di chitarra che Rotta sfodera
nell'occasione. Con "Gimme Some" è tempo di funky con l'ottima ritmica
costituita, oltre che dalla chitarra del leader, da basso e batteria suonati
rispettivamente da Pier Mingotti ed Adriano Molinari. Si rimane sul tempo
con "Rock Me" per passare quindi a "You're Gone", ripresa dal vivo ed
introdotta dal suono "tremulo" della chitarra elettrica: uno strumentale
"largo" che esalta i solisti mettendo in mostra tutte le qualità di Rudy
Rotta che non sono solo frutto di una tecnica indiscutibile ma, soprattutto,
di una sensibilità notevole! Esaltanti i duetti proposti sia con il piano
elettrico che con l'Hammond. Ancora un live, "Bab, Bad, Feeling", accompagna
l'ascoltatore verso l'epilogo con lo shuffle "She'd Hurt Too" e la reprise
strumentale di "Lady", singolo di lancio dell'intero disco.
Tutti i brani registrati in studio sono stati ripresi (come da migliore
tradizione) in diretta.
St. Mude Avenue: St. Mude Avenue
L'incontrastato
e longevo impero del Blues elettrico e del Chicago blues sta conoscendo da
qualche tempo una flessione nell'interesse artistico di tanti musicisti
italiani (secondo una tendenza che si va diffondendo anche negli USA) al quale viene sempre più preferito
il suono degli strumenti acustici ed i temi tradizionali con accenti di marca country. Non ci interrogheremo in questa
sede sui presupposti che hanno generato la "svolta"
(magari lo faremo in un contesto più idoneo) ma l'introduzione m'è
parsa d'obbligo visto che sto per presentarvi una formazione ed un
disco che sono nati con il proposito di percorrere questa
strada.
St. Mud Avenue è frutto della passione di due artisti liguri: il
navigato armonicista Fabio 'Kid' Bommarito ed il bravo fingerpicker e
cantante Stefano Ronchi che ho conosciuto come supporter della cantante
Paola Ronci con gli Hay Bale Stompers assieme al contrabbassista Pietro
Martinelli, anch'egli presente in quest'album. Sono del gruppo anche la
brava vocalist Flavia Barbacetto ed il violoncellista Stefano Cabrera.
Il titolo del disco è omonimo come nella migliore tradizione delle
opere prime.
Si parte con lo strumentale "Rainy Day Rag" che anticipa senza
inutili preamboli quello che sarà il leitmotiv del CD. Ancora
a tempo di rag, la divertente "Strange Kind Of Lovin" cui segue "Six
Feet Under" con la melodiosa armonica di 'Kid' Bommarito che duetta con
il violoncello di Stefano Cabrera. La prima cover che s'incontra è
"Hipshake", un brano
dello storico armonicista della Lousiana Slim Harpo qui rivisto in una
versione molto originale con le voci di Ronchi e Barbacetto in
evidenza. "Free" è una ballad crepuscolare, uno dei momenti più intimi
del disco insieme a "I'm So Lonesome I Could Cry" di Hank Williams. Ma
il ritmo la fa da padrone e torna con la divertente "Up Above My Head"
di Sister Rosetta Tharpe. Anche il gospel fa capolino grazie ad un
brano di Blind Willie Johnson, "Your Gonna Need Somebody On Your Bond",
prima che il treno riparta con il blues di "Born In Mississippi"... per
assumere una forma ancor più tradizionale nell'accattivante slow "I Want A Limousine". Ancora una cover, questa volta un motivo
degli anni venti del pianista e compositore canadese Shelton Brooks che
porta con se il sapore dell'epoca che si ritrova nel finale
del disco tra le note di "Cannonball Rag" di Merle Travis.
"St. Mud Avenue" è, come detto in introduzione, un ottimo esempio del
nuovo corso intrapreso da diversi musicisti di Blues ed è davvero
piacevole. Sono certo che l'album sarà apprezzato da tanti, appasionati
e non. I brani originali sono a firma di Stefano Ronchi. Le registrazioni sono state effettuate in diretta e riprese in analogico per
conferire al suono quel complessivo sapore old style che lo caratterizza.
Mark
Slim - Fabrizio Soldà: North-East Blues
Disco
d'esordio, dedicato al Blues acustico, questo "North-East Blues" del duo
Mark Slim (chitarra e voce) e Fabrizio Soldà (armonica).
Già dal titolo è possibile risalire alla provenienza dei due giovani
musicisti: quel Nord-Est d'Italia che ha nel Veneto il proprio centro di
gravità.
L'assonanza geografica tra il Delta del Mississippi e quello del Po fornisce
ai nostri lo spunto per collegarsi virtualmente alle narrazioni proprie
della cultura Blues neroamericana: disagio sociale, lavoro nero,
discriminazioni e tanta povertà. A tal proposito, all'interno della
copertina, sono proposte delle foto d'epoca che raccontano di un mondo
rurale che non c'è più e che, nello specifico, ha lasciato posto alle
fabbriche ed alle tante attività imprenditoriali che fanno oggi del Nord-Est
la parte economicamente più dinamica d'Italia. E non posso fare a meno di
pensare al susseguirsi dei corsi e ricorsi storici e di come il delta di un
grande fiume porti con se (per ironia della sorte) anche qui da noi come nel
Mississippi di allora: discriminazione, indifferenza e spesso razzismo verso
i migranti. Ma questa è un'altra storia...
Marco Carraro (aka Mark Slim) è un chitarrista padovano, men che trentenne,
che è stato diverse volte negli States riuscendo a costruirsi un ricco
curriculum grazie alle tante collaborazioni. Fabrizio Soldà è armonicista
dalla buona personalità che dimostra di aver appreso tanto dall'ascolto dei
grandi dello strumento.
Il duo ci propone un repertorio country blues fatto prevalentemente di
covers (J.Rogers, S. Hopkins, C.Patton, J.Reed, G.Davis, ecc.) e da tre
originals in perfetto stile: "Divorce Blues" (brano d'apertura del CD), la
title track "North-East Blues", e "My Boss Is A Dirty Speculator".
Dato per scontato il lavoro meritorio che Mark Slim e Fabrizio Soldà hanno
svolto nell'operazione di recupero di brani e protagonisti del Blues
acustico, mi pare che in questo caso l'accademia abbia finito per prevalere
sul feeling, come in una sorta di compito ben fatto ma che non va oltre la
sufficienza. Assente di lusso la voce che in una formazione a due riveste un
ruolo assolutamente primario e fornisce "credibilità" all'insieme.
Il Blues acustico (Country Blues, Delta o Piedmont che sia) ha le sue regole
stilistiche che abbiamo decodificato e studiato. Ma non sono certo il finger
picking, le accordature aperte e le note piegate che fanno il Blues (fosse
così facile...).
Sono sicuro (scusate la presunzione) che anche Mark e Fabrizio, fra qualche
anno, sapranno riconsiderare questa esperienza discografica con maggior
senso critico.
Lauren
Sheehan: The Light Still Burns (USA)
Quarto disco per la brava chitarrista ed insegnante
di Portland Lauren Sheehan, che riporta nel titolo
uno slogan pubblicitario della Gibson apparso nel
'43 sulla rivista americana Metronome Magazine: "The
Light Still Burns". Il lavoro fa parte di un
progetto molto più ampio che ha origine dal libro
"Kalamazoo Gals: A Story of Extraordinary Women &
Gibson 'Banner' Guitars of WWII" di John Thomas, un
insegnante di diritto e mediocre chitarrista (per
sua stessa definizione) fortemente appassionato di
chitarre d'epoca, che è rimasto affascinato da una
foto della metà degli anni quaranta che ritraeva le
Gals (termine in slang che significa ragazzine),
operaie della Gibson, "sorridenti e vestite con
abiti primaverili" in posa davanti la fabbrica di
Kalamazoo. I Loro uomini erano in guerra ma la
fabbrica continuava a produrre grazie a loro. Appare
ovvio che le chitarre risalenti a quell'epoca furono
costruite in buona parte da abili mani femminili.
Thomas è andato a trovare le oggi anziane Gals per
conoscerle e raccogliere la loro testimonianza
diretta.
Se il libro non è ancora stato pubblicato, il CD di
Lauren è già in distribuzione. La parola d'ordine è:
"Dodici Donne, Dodici Canzoni, Dodici chitarre". Se
le dodici canzoni vengono riesumate dalla metà del
1800 (avete capito bene!) ai primi anni del
novecento, le chitarre utilizzate sono segnalate con
sigla e anno di produzione e sono pervenute da
collezionisti di tutto il mondo. "The Light Still
Burns" catturerà l'interesse degli appassionati di
chitarre d'epoca, soprattutto delle acustiche
firmate Gibson.
Mi pare doveroso chiudere questa presentazione
tessendo le lodi per Lauren Sheehan, eccellente
chitarrista ed ottima cantante che lo stesso John
Thomas ha indicato come l'unica in grado di dare
sviluppo al suo progetto di cui vi ho solo accennato
per brevità ma che narra una storia molto
interessante (se volete saperne di più vistate il
sito kalamazoogals.com).
Auguro a Lauren che, grazie a questo splendido
lavoro, possa trovare mercati più vasti per il suo
talento.
Lauren
Sheehan: Two Wings (USA)
Lauren Sheehan è una cantante e chitarrista americana con profonde radici
nella tradizione, sia bianca che nera. Cresciuta nel New England, ha
studiato la chitarra classica e si è laureata presso il Red College con una
tesi sulla musica folk americana. Si è data da fare suonando in vari gruppi
ed insegnando musica nelle scuole private fino al 2003. Parallelamente
all'attività di musicista professionista, continua ancor oggi a tenere
workshop e seminari per altri artisti.
La capacità di risalire fino alle fonti consente a Lauren di attingerne i
suoni più puri ed incontaminati. La voce cristallina, che spesso si spinge
verso timbri alti e nasali propri dei bluesmen prebellici, e l'ottima
tecnica, tanto alla chitarra quanto al banjo, contribuiscono alla
realizzazione di una musica che, seppur acustica e mai sopra le righe,
scorre leggera ed intrigante.
Il nuovo album, "Two Wings", arriva dopo il successo del disco d'esordio
"Some Old Lonesome Day" del 2003.
Tra i musicisti che partecipano alle registrazioni spicca il nome dell'armonicista
di Washington, D.C. Phil Wiggins (ben noto agli appassionati italiani per
gli ottimi lavori prodotti in duo con il chitarrista John Chepas, ndr.) che
qui distilla gocce di puro blues acustico.
Il disco è ben strutturato e gradevolissimo. Si passa da traditionals a
brani degli anni venti riportati a nuova freschezza come: "Lonesome Day
Blues" e "Statesboro Blues" del rev. Blind Willie McTell, "Kind Hearted
Woman" di Robert Johnson ed una magnifica versione di "In My Girlish Days"
tratta dal repertorio dell'indimenticabile Memphis Minnie, solo per citare i
più noti.
Sono due le composizioni originali, entrambe strumentali: "Farawell
Swallowtail", un finger picking per chitarra scritta in omaggio alla
Swallowtail School che Lauren ha fondato e diretto per 10 anni, e "Del ta
Queen" un "divertissement" per banjo solo.
Lauren Sheehan sarà presto in tour in Italia. Se dovesse esibirsi dalle
vostre parti, vi consiglio vivamente di non lasciarvela sfuggire: i suoi
show sono davvero coinvolgenti.
Luigi
Tempera: Walking With My Devils
Crotalo Edizioni
Musicali
Il Diavolo, com'è noto, ha mille facce. Una di queste appartiene al signore qui
ritratto sulla copertina del primo lavoro discografico intitolato, non a
caso, Walking With The Devils. Il mutante in questione risponde al nome di
Luigi Tempera. Nella vita di tutti i giorni veste i panni dello scrupoloso
insegnante di chitarra presso la scuola "Violeta Parra" (da lui stesso
diretta) in quel di Beinasco, nei pressi di Torino. Quando il sole tramonta
e le tenebre si affacciano sulla soglia della notte, il "maligno" si
impossessa della sua anima facendola librare dalla guglia della Mole
Antonelliana per un lungo viaggio. Un volo senza scalo verso quel mondo
fuligginoso, dal fascino romantico e magnificamente tetro, dal quale il suo
stesso spirito ha avuto origine.
Dopo un ventennio di attività live trascorso tra mille pentatoniche bagnate
da sano nettare d'uva, Luigi ha deciso di fissare su disco otto canzoni
"scritte con la sincera passione di chi non poteva fare altro che esprimere
i propri Blues in modo schietto e convinto" (come rivela nelle note di
copertina).
Walking With My Devils è un CD breve (meno di trenta minuti) ma di gran
classe. Si apre con "Son A Jam" ed è subito il dobro a guidare uno swing
acustico di eccellente fattura. Segue "Start Me Up Start Me Down" in cui
Luigi inforca l'acustica per offrire un saggio della tecnica di cui è in
possesso, tirando fuori un suono cristallino, condito da un arrangiamento
tanto essenziale quanto preciso. Ancora atmosfere jazzy (che mi ricordano il
Tom Waits più romantico) nella bella "I'm Not Sure" con la chitarra
elettrica ed il basso acustico a marcare lo swing. "Come On My Train" è una
ballad in cui la voce crea un momento di magico intimismo: uno dei brani più
intensi del disco. A seguire, il cool westcoastiano di "Jazzy", motivo
suonato "in punta di dita" e cantato in italiano. Con "Walking With My
Devils" arriva il più tradizionale Blues acustico per chitarra ed armonica.
Prezioso, nella title track, l'apporto all'armonica di Andrea "Rooster"
Scagliarini. In "Magda" è ancora lo swing a permeare il sound. Cantata anche
questa in italiano, si allinea alla scuola torinese del grande Paolo Conte.
Il CD si chiude con lo shuffle strumentale "GG Boogie", un motivo dal gusto
raffinato.
Luigi Tempera ha atteso diversi anni, con estrema saggezza, per definire
appieno la propria personalità. E' così riuscito a sintetizzare l'esperienza
delle innumerevoli notti blues in questo Walking With My Devils, un lavoro
di rara godibilità da ascoltare e... riascoltare!
Daniele
Tenca: Live For The Working Class
Route 61 Music
Puntuale,
come avviene sovente nella tradizione anglo-americana, ecco il Live di
"Blues For The Working Class" di Daniele Tenca, che reputo uno tra i
migliori dischi del Blues italiano. L'abbinamento tra la musica nera con
l'eterna, drammatica, attualità dei testi che narrano la durezza del mondo
del lavoro in fabbrica, ne fanno un disco di rara coerenza.
Questo "Live For The Working Class" conferma quanto di buono già scritto sul
disco registrato in studio, oltre ad evidenziare ulteriormente una
formazione "quadrata", fatta da musicisti di comprovata abilità (qui con
l'aggiunta dello hammondista Cristiano Arcioni), magnificamente a proprio
agio con le dodici battute e non solo...
Una rapida occhiata alla copertina è sufficiente per scoprire le presenza di
alcune covers che ben si uniscono ai brani originali (e dalle quali Daniele
avrà tratto ispirazione). Si tratta di tre classici di Bruce Springsteen: "Johnny
99", "Red Headed Woman" e "Factory" (già presente nel disco precedente); di
un brano firmato dall'armonicista A.J. Forest (con il quale Tenca condivide
la band per questo progetto) dal titolo "Breach In The Levee"; ed il
traditional "John Henry", che riporta in mente il folk immortale, incentrato
proprio sul lavoro, di un menestrello di nome Woody Guthrie.
Tra le cose che mi hanno più colpito vorrei segnalare lo shuffle iniziale "Cold
Confort"; le belle versioni di "Johnny 99" e "Red Headed Woman", la prima in
walkin' style e l'altra a tutto boogie; la trascinante "The Mills Are
Closing Down"; la cangiante "My Working No Longer Fits For You", eseguita
davvero alla grande; e la conclusiva "Joe Henry", un divertente country
sudista per un gran finale che ti lascia la voglia di ripigiare il tasto
play.
Forse la voce di Daniele avrebbe potuto essere più graffiante e coinvolgente
in alcune occasioni, ma la considerazione è del tutto soggettiva pertanto ne
lascio a voi il giudizio.
"Live For The Working Class" è stato registrato il 2 dicembre del 2010 (nel
corso del Working Class Tour) presso il teatro Amigdala di Trezzo sull'Adda
(Milano).
Daniele
Tenca: Blues For The Working Class
Daniele
Tenca è un musicista milanese fortemente impegnato nel sociale; suona
chitarra, armonica ed organo, ma è anche cantante e songwriter, ed ha scelto
il linguaggio del Blues per questo suo secondo progetto discografico. A tal
fine, si è avvalso della collaborazione di musicisti di prim'ordine come:
Pablo Leoni, Luca Tonani e Heggy Vezzano, da parecchi anni "la band" dell'armonicista
americano Andy J. Forest (anch'egli presente nel disco come guest star).
Già dal titolo del CD, e dopo un primo ascolto, risulta evidente come la
forza di Blues For The Working Class stia soprattutto nelle tematiche che
restituiscono magnificamente al Blues quell'assonanza di contenuti che
l'hanno reso, nell'arco di due secoli, il linguaggio universale per
eccellenza.
Se nel Mississippi degli anni venti si narravano storie legate alla dura
realtà rurale e nella Chicago dei 40/50 le liriche furono ispirate dalla
"moderna" emarginazione metropolitana; nel 2010 Daniele Tenca canta i suoi
Blues prendendo spunto da problematiche più che mai attuali quali: il lavoro
nero, la precarietà, le morti bianche, le discriminazioni sociali, che - in
barba al progresso culturale ed economico - non sono affatto migliori (di
certo altrettanto subdole e coercitive...) di quelle di un'epoca, mai
prossima al tramonto, che lega storie e luoghi lontani solo in apparenza.
Per coerenza stilistica, Tenca ha scritto i testi in inglese proponendone le
traduzioni (a beneficio di tutti!) all'interno della copertina.
Delle undici tracce di Blues For The Working Class solo due sono le covers:
una versione molto raffinata di Eyes On The Prize, traditional recentemente
rispolverato da Bruce Springsteen nel suo omaggio a Pete Seeger, ed una
singolare versione di Factory (dal repertorio dello stesso Boss del rock'n'roll
a stelle e strisce) letteralmente ricostruita su un drive alla Muddy Waters.
Il CD si apre con lo shuffle in stile Chicago di Cold Comfort, il cui
ritornello recita: "La mia anima è sempre più fredda, amico. E' difficile
trovare ragioni per combattere perchè tutto ciò che mi porta il mio lavoro è
magra consolazione". Un linguaggio diretto, privo di metafore, una sorta di
messaggio rivolto alla pigra indifferenza di molti di noi che ci spinge a
meditare.
I brani che vorrei segnalare sono: l'acustica The Plant; il Texas blues di
My Works; il rock 49 People, che fa riferimento alle recenti rivendicazioni
sindacali per la disperata difesa dei posti di lavoro; la ballad Floers At
The Gate, che prende spunto dalla tragedia della Thyssen: "Io esisto facendo
doppio turno tutte le notti, tu vivi sorseggiando il nostro sangue come
fosse vino..."; lo shuffle Spare Parts, in cui si denuncia la formula
"lavoratore = pezzo di ricambio"; e la conclusiva This Workin' Day Will Be
Fine, con l'armonica di Andy J. Forest.
Blues For The Working Class è un grande disco per suoni e contenuti ed un
chiaro esempio dell'attualità del Blues quale messaggio sociale.
Registrato presso gli studi Officine Meccaniche di Milano, vedrà la luce
nella prima quindicina di gennaio 2010, prodotto dallo stesso Daniele Tenca
in favore dell'ANMIL (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi sul
Lavoro).
Lorna
Willhelm: I Feel Good With The Blues (USA)
Poundcat Music
Lorna
Willhelm è l'ultimo anello che si aggiunge ad una lunga catena di musicisti
meritevoli di aver fatto del Texas blues un sound composto ma, al tempo
stesso, riconoscibile tra mille. Come i suoi più illustri predecessori,
anche la cantante di Waco manifesta le sue chiare virtù musicali attraverso
un mix di blues e jazz, qua e là annegato in rock & roll d'ispirazione 50 e
60. Dotata di voce con licenza di 'scat' - educata presso il McLennan
Community College e modellata da Beth Ullman - Lorna Willhelm si affaccia al
mondo discografico con il cd I Fell Good With The Blues nel quale
mostra il meglio di se avvalendosi di covers più o meno note (Ike Turner,
Big Mama Thornton, Roomful of Blues) e di tre originals composti dal marito
Rex. Ciò che colpisce al primo ascolto è la swingante freschezza con cui
Lorna affronta i vari generi. Tutto diventa così 'gradevole' da imporre un
ulteriore e più attento ascolto. Chi cerca in questo cd i ruvidi sapori di
cactus e polvere tipici di certe sonorità texane resterà deluso di certo.
Siamo infatti ben lontani da S.R. Vaughan, J. Winter, Fabulous Thunderbirds
ed affini; il paragone può proporsi con artisti più votati al cool ed al
jazz più in generale (ascoltare Cry Me a River per credere). C'è chi ha
accostato Lorna a Maria Muldaur e lei stessa scrive nella biografia di
essersi ispirata ad Ella Fitzgerald, Big Mama Thornton e Mel Torme, a me
piace pensare che Lorna Willhelm sia un'artista originale con parecchie
frecce al suo arco. Le manca forse quel pizzico di personalità in più, ma
questo è un fatto d'esperienza. I Feel Good With The Blues è un cd
ottimamente registrato con una band che suona in maniera impeccabile.
Attendiamo per valutare le evoluzioni future.
Warm Gun: Invisible Man
Buffalo Bounce
Se
la musica si potesse osservare come si fa con una fotografia, vedremmo
questo disco dei Warm Gun quasi fosse in bianco e nero. Il fotografo ama la
"scala dei grigi" per l'insita capacità di rappresentare il phatos
dell'attimo, dell'espressione strappata al concetto di tempo per divenire
eterna. La crudezza della proposta e la sua "drammaticità" di stampo
neorealistico, emergono anche dalla lettura dei suoni "essenziali" del duo
campano. Non c'è ricorso a frizzi e lazzi: qui il Blues è assolutamente e
magicamente concreto. Trovo che "Invisible Man" nasca da presupposti
culturali molto vicini a questa personale sensazione.
I Warm Gun si definiscono: "Una vacanza dalle rispettive attività musicali
e antitesi perfetta del gruppo emergente". Di certo "emergenti" non possono
essere considerati i due artisti che hanno allestito questo progetto: Max
Pieri e Fred Ghidelli.
Max Pieri è musicista e giornalista molto conosciuto in Campania (e non
solo). Casertano, è dal '94 l'animatore dei Carpe Diem (recensione del CD "Naked
Moods" in archivio) con cui ha calcato tanti palcoscenici. Max suona basso e
percussioni ed è autore dei brani di questo disco (due dei quali composti
assieme a Ghidelli). Una penna ispirata dal Blues "autentico", quello non
sempre incentrato sulle "dodici battute" ed in cui è possibile cogliere
un'ampia gamma di sapori: da quelli rurali, propri del Blues più canonico
al rock'n'roll delle origini, entrambe miscelati con una dose di swing
appena accennato ma spesso latente. Sono queste, in sintesi, le linee guida
del CD "Invisible Man".
Fred "Elmore" Ghidelli è chitarrista d'annata, di quelli che hanno vissuto
la musica a 360°. Lunghe e varie esperienze nel jazz, unite ad
un'altrettanto intensa attività di produttore, ne fanno un artista con
parecchie frecce al suo arco. Nonostante (a quanto mi risulti) si tratti
della sua prima esperienza con il Blues, dimostra ottima padronanza ed una
conoscenza del genere degna dei bluesmen più navigati (bravo nella tecnica
slide).
Il CD di cui si tratta contiene 10 brani, 8 dei quali - come detto prima -
sono composizioni originali. Tra i motivii che più mi hanno colpito vorrei
segnalare l'iniziale "Keep Time!", "The Bitter Pill", "Howling Sly" e la
title track "Invisible Man". Gustosissimo il medley "assemblato" con il
traditional "Rains All Night", "Sponful" di Willie Dixon e "Dimples" di J.L.
Hooker. Molto bella, infine, "I'm So Lonesome I Could Cry" di Hank Williams,
con la voce "sconvolta" di Max Pieri e la chitarra "tremolante" di Fred
Ghidelli che ci riportano ad atmosfere sixties.
Warm Gun:
Blues Virus
Buffalo Bounce
Nella
copiosa discografia Blues italiana, i Warm Gun si sono ricavati una
collocazione ben definita. Già dal disco d'esordio "Invisible Man"
erano chiari gli orientamenti artistici di Max
Pieri (basso, voce e percussioni varie) e Fred Ghidelli (chitarra e pedal
steel): una musica scarna e tutta ritmo con uno spirito che ricorda le jug
band degli anni venti del secolo scorso (ed aggiungerei, con le nobili
modalità dei buskers).
Il Blues è qui ridefinito nella sua naturale dinamica, restaurato dalle
tante scorie che si sono sovrapposte con il passare dei decenni a causa dei
progressivi "adeguamenti" atti a renderlo gradevole anche a palati meno
sensibili.
"Blues Virus" costituisce la conferma di un linguaggio diretto e, al tempo
stesso, l'evoluzione di un progetto solido che si tiene lontano dal
perseguire la facile ricerca di ammiccanti compromessi pur possedendo una
naturale raffinatezza.
Tra le tracce del disco si nota (seppure con la discrezione propria dei
grandi musicisti) la presenza di tre illustri ospiti partenopei: Mario
Insenga, storico batterista, profondo conoscitore di Blues ed instancabile
leader dei Blue Stuff; Lino Muoio, che nella medesima band suona diversi
strumenti a plettro (qui nelle vesti di mandolinista); e Edo Notarloberti,
violinista di estrazione neoclassica che dimostra di trovarsi a proprio agio
anche con il sound dei Warm Gun.
Sono profondamente convinto che "Blues Virus" sia un disco da ascoltare a
mente libera, godendo dei contenuti senza condizionamento alcuno. Tuttavia,
il ruolo di recensore mi spinge a segnalarvi i brani che più mi hanno
colpito e, credetemi, si tratta di una selezione tutt'altro che agevole...
Il brano d'apertura "Body Hole" ha tutto il sapore del southern rock con
chitarra slide e basso che si intrecciano guidati dal ritmo del tamburello;
la titol track "Blues Virus" è uno strumentale jazzy a tutto swing condotto
dalla chitarra di Fred Ghidelli e ben sostenuto dal walking di Max Pieri e
dal puntuale drumming di Mario Insenga; "Infected" ricorda le atmosfere dei
grandi songwriters americani, è una ballad "siderale" che il suono lontano e
riverberato della lap steel guitar rende magica; la conclusiva "Red Bubble
Blues" è l'unico brano dell'intero CD in cui fa la sua comparsa la chitarra
acustica per un blues alla "Rollin' and Tumblin' " eseguito alla Warm Gun.
Sette su dieci sono composizioni di Fred e Max, solo due le covers proposte
nel disco: una strumentale e swingante versione dell'immortale "Summertime"
di Gershwin ed il classico del Blues "Goin' Down Slow" firmato da James
Odeon ed entrato nel repertorio di tutti i grandi della musica nera. C'è
spazio anche per il traditional degli anni venti "Nobody's Fault But Mine"
portato al successo da Blind Willie Johnson ed alla conoscenza dei più dai
Led Zeppelin nei settanta.
"Blues Virus" è una delle piacevoli sorprese del 2010 appena iniziato e già
si pone come punto di riferimento per i lavori che vedranno la luce durante
il suo corso.
Dimenticavo... Se i Warm Gun dovessero capitarvi a tiro, non perdeteli! Dal
vivo riescono ad essere coinvolgenti come pochi.
The Wild
Boars: A Bottle Or A Gun
New Model Label
Se,
ad un certo punto della mia vita, non avessi deciso di occuparmi più da
vicino della musica prodotta in Italia, mi sarei perso sicuramente dei
lavori di assoluto rilievo come questo "A Bottle Or A Gun" dei The Wild
Boars.
Il primo lavoro della band torinese è un chiaro esempio di come la cultura
musicale italiana, permeata com'è dai suoni made in USA, riesca sovente a
superarla nei contenuti, oltre che nel sound, grazie alle doti di
strumentisti e songwriters. Quando a tutto ciò si unisce l'entusiasmo di
etichette indipendenti come la New Model Label di Ferrara, "dedicata a
musiche rigorosamente suonate!", il risultato non può che essere positivo.
La storia dei The Wild Boars passa attraverso le esperienze dell'artista
inglese Andy Penington, del bluesman romano Stefano Raggi e di Simone Ubezio
(chitarrista e produttore del disco), legate assieme dalla passione per la
musica americana nella sua totalità.
"A Bottle Or A Gun" si colloca in quel contesto particolarmente attuale che
affonda le radici nel Country tradizionale, arricchito da elementi di Blues
e Rock (ma non solo...). Band come gli Old Crown Medicine Show, Roky
Erickson, gli Okkervil River, The Avett Brothers, sono punti di riferimento
e di culto per gli amanti del genere.
Il sound energico e gradevole del disco, prodotto da strumentazione
prettamente acustica, trascina l'ascoltatore verso i grandi spazi nei quali
convivono solitudine e sentimenti intimi, ma anche euforia e voglia di
denuncia. Nei 10 brani del CD (tutti firmati Penington, Raggi, Ubezio) c'è
tutto questo ed altro ancora.
La prima traccia "A Wild Boar On A Vodoo Train" è un impasto di chitarre
acustiche caratterizzato dallo sferragliare del dobro, su cui svetta la voce
profonda e molto bella di Stefano Raggi. Si passa quindi a "Out Of Luck"
dall'andamento più rockeggiante, questa volta guidato dalla voce di Andy
Penington che ricorda i grandi songwriters californiani dei 70. La mitica
West Coast è evocata, in maniera musicalmente esplicita, in "Where Credit's
Due" in cui accordion e lap-steel intessono una base suadente. Ancora una
ballad cantata da Andy e Stefano, "Unfaithful", anticipa il southern rock "Linedance
Hooker" (che mi fa tornare in mente i leggendari Little Feat di Lowell
George).
Vorrei ancora segnalarvi: "Vigilante" firmata da Andy Penington, in cui si
denuncia l'invadenza dei media nei fatti di cronaca nera (tema estremamente
attuale...), e la conclusiva, struggente, "Your Train" nella quale si
affaccia la chitarra elettrica di Simone Ubezio che duetta con il mandolino
suonato da Penington.
Grazie anche alla magistrale registrazione che esalta le sfumature dei
singoli strumenti, "A Bottle Or A Gun" è un lavoro eccellente, pertanto
vivamente consigliato.
Wild
Bones: The Road To Memphis
Si
chiamano Wild Bones e sono siciliani di Ragusa. Vi parlo di loro in
occasione dell'uscita del primo album "The Road To Memphis".
Il titolo "racconta" (non saprei dirvi se casualmente o meno) della
prestigiosa partecipazione effettuata nel gennaio 2013
all'International Blues Challange di Memphis dopo aver vinto le
selezioni nazionali!
L'avventura musicale parte naturalmente qualche anno prima, esattamente
nel 2009, da quello che molti conoscono come il profondo Sud d'Italia.
Tanto profondo quanto carico di valori culturali e progettazioni
positive e nel quale si incastona alla perfezione l'arte dei Wild
Bones. Non inganni la recente costituzione della band, i musicisti sono
di consumata esperienza e sono stati sufficienti loro circa quattro
anni per rodarsi e proporsi con successo in festivals e contest di
livello internazionale.
"The Road To Memphis" vede la luce alla vigilia della partenza per gli
States e costituisce un chiaro atto d'amore per i musicisti che hanno
costruito le basi della loro formazione artistica.
Iniziando l'ascolto del CD si avverte un acre "odore" texano grazie al
sound che ha fatto conoscere al mondo illustri protagonisti tra cui i
mai dimenticati ZZ Top (recentemente tornati con un nuovo disco, ndr.).
Personalmente definirei i Wild Bones quali epigoni senza mezzi termini
di certa musica e, a conferma di ciò, aprono le danze proprio con tre
brani firmati Gibbons, Hill, Beard (gli ZZ Top appunto); nell'ordine:
"Tush" (dal LP "Fandango" del 1975), "La Grange" (dal LP "Tres
Hombres"del 1973) e "She's Just Killing Me" (dal CD "Rhythmeen" del
1996). Si parte quindi per Memphis con due covers appartenenti al
repertorio del crooner Bobby "Blue" Bland: "I Don't Believe", un boogie
frizzante, e "Good Time Charlie", il più classico degli r'n'b. Dopo un
inizio "a tutta birra", si svolta repentinamente verso il suono
acustico con due must appartenenti al Blues prebellico: "Walkin' Blues"
di Robert Johnson e "Rollin' and Tumblin'" ascritto al Muddy Waters
rurale, entrambe eseguiti alla perfezione. Stessa cosa dicasi per la
successiva "The River" (per slide sola) del chitarrista del momento,
Joe Bonamassa. Il viaggio verso la fine ci riserva la piacevole
sorpresa di riascoltare un brano come "Walk In My Shadow" dei mitici
Free di Paul Rodgers. C'è anche spazio per il Chicago blues con la
cover di "Palace Of The King" di Freddy King, preludio ad un medley
acustico che chiude l'album sulle note di "Come One In My Kitchen".
In definitiva, i Wild Bones dimostrano di essere degli ottimi
musicisti: dalla voce roca e possente di Santi Ciarcià, al chitarrismo
tanto vario quanto appropriato di Davide Sittineri e con una ritmica
assai puntuale, con Fabio Emmolo al basso e Nuccio Pisana alla
batteria. "The Road To Memphis " è un buon disco che raccoglierà molti
consensi. Mi aspetto che in futuro i nostri si misurino anche con brani
di loro composizione affinchè il Blues non rimanga una semplice
rivisitazione ma continui a vivere e rinnovarsi.
The
Wiyos:
Porcupine (USA)
Truthface
Recording
Tra
i lavori che mi sono pervenuti di recente, vorrei segnalare alla vostra
particolare attenzione Porcupine, un CD ad "alto gradimento"
prodotto da una formazione di Brooklyn, NY che si chiama The Wiyos. Si
tratta di un combo formato da tre elementi che, avvalendosi di
strumentazione acustica, riscopre le radici della musica americana
restituendone intatte le sensazioni originarie. Musica all'insegna di uno
spirito ludico, ispirata da figure come Charlie Chaplin e Buster Keaton,
nella migliore tradizione della commedia musicale vaudeville degli anni
'20 e '30 e dei Medicine Shows del West. I tratti artistici che balzano
evidenti sono quelli di Django Reinhardt, Blind Boy Fuller, Robert Johnson,
ma anche di Fats Waller e Gershwin. I suoni attingono con lodevole purezza
tanto dallo swing e dal ragtime, quanto dall'hillbilly, dal Piedmont e dal
country blues, affiancando il fervore dei canti tradizionali delle Blue
Ridge Mountains alle sonorità più urbane di New York.
I musicisti sono davvero fenomenali. Michael Farkas è un eccellente
armonicista e cantante ma suona una quantità di strumenti, alcuni
"ortodossi" come il kazoo, il washboard ed il banjo, altri più "personali"
come sordine modificate, trombette di varia natura e dimensioni,...
Parrish Ellis è chitarrista di ottime qualità. Suona perfettamente nei
vari stili che i Wiyos affrontano, ed è munito anch'egli di una voce molto
gradevole. Joseph DeJarnette "percuote" con rara puntualità il suo
contrabbasso e partecipa agli inserti ritmici vocali che rivestono un
ruolo preminente nella dinamica dei brani.
Quindici le tracce presenti in Porcupine, per oltre
51 minuti di sana e solida "american roots music". Il suono
complessivo ha il sapore delle registrazioni casalinghe, perfetto per
restituire il fascino che da queste ne deriva. Tra i brani originali, mi
corre l'obbligo di evidenziare "Strawberry Wine" (di M. Farkas), un blues
alla Terry & McGhee, e "Next Door Blues", altro country blues firmato
Ellis/DeJarnette. Ancora meritevole di menzione la ballad "Annie Walden"
di Parrish Ellis e "Strawberry Wine" di Michael Farkas, con la voce
"megafonica" che rende l'atmosfera ancora più vintage. Tra i numerosi
traditionals e cover, mi ha particolarmente entusiasmato la versione "da
strada" di "Blue Drag", un
classico swing di Jeff Myrow nel quale Michael si sbizzarrisce utilizzando
strumenti a fiato di varia natura e derivazione (o "sundries" come
riportato nelle note di copertina) simulando efficacemente - e con genuina
ironia - tromba e cornetta.
The Wiyos, dopo aver girato in lungo ed in largo attraverso gli Stati
Uniti, saranno in Italia nel periodo primavera-inizio estate 2005 per la
loro prima tournée europea. Vietato lasciarseli sfuggire!
Robi
Zonca: Do You Know?
Robi
Zonca è, quello che si
dice, un bluesman di lungo corso, forgiato da molti anni di vita on the
road. La sua militanza al fianco di musicisti blasonati come Andy J.Forest,
Fabio Treves, Tolo Marton, Mia Martini (solo per citarne alcuni), e le
numerose tournée in tutta Europa, fanno si che a Robi venga assegnato, di
diritto, un posto tra i protagonisti di vertice del Blues made in Italy. Il
chitarrista lombardo – con licenza di bassista – ha dedicato la propria vita
artistica al Blues vestendo i panni dello strumentista.
Da qualche tempo s’è messo in proprio, allestendo una band, formata da
eccellenti musicisti, per dar vita al primo lavoro discografico a suo nome
il cui titolo è Do You Know? Ha chiamato a raccolta alcuni amici
noti, tra cui: Aida Cooper, Tolo Marton, Enrico Crivellaro, che hanno
contribuito ad impreziosire, con bagliori di classe, un lavoro - di per se -
molto interessante.
Diciamo subito che il CD è, come da premessa, una testimonianza del Robi
Zonca autore, sono sue infatti nove della dieci tracce qui presenti;
l'eccezione è costituita da un vecchio hit dei Blood, Sweet & Tears, quella
"Spinning Wheel" che sovente viene recuperata dall’oblio del tempo. Vario
nei temi trattati (si passa infatti dal rock al blues al r'n'b, senza
soluzione di continuità) il lavoro è un escursus attraverso il quale è
possibile intravedere le basi culturali su cui poggia (da Beatles e Stones
al funky/cool di marca Steely Dan al più canonico shuffle chicagoano). Do
You Know? non è un disco blues nella sua accezione più tradizionale (o
più "ristretta", se preferite): qui il blues si coglie dal sottile profumo
che si respira all'ascolto e nel sentimento sincero che lo anima.
Preferisco non soffermarmi sui singoli brani lasciando la scoperta
all'interesse di chi legge. Vorrei solo confessarvi che il CD di cui si
parla "suona" spesso nel mio riproduttore... e, per alimentare ulteriormente
la vostra curiosità, auguro anche a voi un buon ascolto!
Robi Zonca: You Already Know
Mi ero già occupato di Robi
Zonca più di un anno fa, in occasione dell'album d'esordio da solista Do You Know? La cronologia
delle registrazioni non induca però a pensare che la sua carriera sia appena
iniziata; Zonca è, in realtà, un "anziano" del Blues made in Italy,
con lunghi anni di concerti alle spalle nei club e sui palcoscenici più illustri
d'Italia, e con un palmarès ricco di collaborazioni eccellenti.
Do You Know? è stato un ottimo biglietto da visita; nel primo disco Robi ha
incasellato, distillandoli attraverso una visione interiore, i suoi amori
musicali ed i suoi ispiratori con il risultato, ottimamente riuscito, di
"mostrarsi senza veli" all'ascoltatore.
Nel nuovo You Already Know il musicista lombardo conferma e rafforza uno
stile assolutamente personale. Grazie alla bravura sua e dei musicisti che
lo accompagnano nel CD, gli è facile guardare ad orizzonti più ampi. La
lunga tournée americana dell'estate 2005 ne conferma, inoltre, il dinamismo
in fase promozionale: dote indispensabile che gli ha consentito di dare un
segno tangibile della propria presenza persino nella patria del Blues.
Fatte le doverose premesse, veniamo quindi ad analizzare da vicino You
Already Know, non senza aver prima sottolineato la generosità compositiva di
Zonca: l'unica cover presente sul CD è la celebre "One After 909" dei
Beatles (dal LP "Let It Be" del 1969, ndr).
Si parte con un divertente shuffle, "Rock The Club", che rappresenta
ottimamente lo spirito dell'intero lavoro. Segue una ballad dal titolo "I
Will Love You Anyay", uno dei momenti più intensi e pregni di feeling. "Nothing"
è un blues alla Albert King (per intenderci), con l'organo a stendere un
tappeto sul quale si articola una ritmica di marca r'n'b. Ancora un rock
blues, "My Firend", prima di incontrare un country and western mood nella
gradevolissima "I'm Luky Man". Il blues torna con "GB Shuffle", brano che
riporta certi suoni propri del Sud. Un occhio alla radio in "Sexy Lady", un
motivo estremamente adatto alle FM americane. "Nobody But" è un brano che
mette in risalto le doti di chitarrista di Zonca e precede la title track "You
Already Know That My Baby She's Gone": uno dei momenti più raffinati
dell'intero lavoro. La parte finale del CD inizia con lo shuffle "Just A
Little Bit", al quale segue il rock'n'roll "One After 909" di beatlesiana
memoria, per concludersi con il delicato e suggestivo suono dell'accordion
tra le note dell'acustica "All I Want".
Robi Zonca: So
Good
Tube Jam Records
Robi
Zonca appartiene a quella categoria di artisti che non si muove all'interno
di un rigido clichè. La sua musica è fatta dalla continua ricerca di suoni
che attingono alla memoria di vari generi, elaborati in un sound che finisce
per divenire personale.
I tre album in studio che ha fin qui prodotto sono tutti capitoli a se stanti e definiscono una chiara volontà
di cambiamento (leggi anche crescita artistica).
Personalmente, apprezzo moltissimo queste qualità e le interpreto come la
voglia di esternare, con singolare maturità, tutto ciò che Zonca ha assunto
nel proprio DNA di musicista nel corso degli ultimi trent'anni.
Nel 2006 Robi opera una svolta alla carriera grazie ad una fortunata tournée
negli States che lo accolgono con interesse. La sua musica viene trasmessa
da diverse radio e fioccano le collaborazioni importanti. Molto fertile
risulta essere la partnership con il crooner di New Orleans Luther Kent
(video in home page); assieme conducono un fortunato tour in Italia la cui
testimonianza è fedelmente registrata nel CD live "Magic Box" (2006).
"So Good" è il nuovo lavoro di un Robi Zonca infaticabile che, a conferma di
quanto detto, propone solo due covers e ben nove originals (due dei quali, "Feel
Like Dancing" e "The New Black Man", scritti con Antonello "Jantoman" Aguzzi
di Elio e le Storie Tese).
Il rock blues convenzionale della title track apre il disco seguito da "Feel
Like Dancing", un bel funky jazz con "aperture" alla Steely Dan, band che
pare abbia particolarmente inciso sulla formazione del Zonca compositore.
Anche la successiva "How Long" si muove infatti sulla linea segnata dal
grandissimo sound westcoastiano di W. Beker e D. Fagen. "Give Me Strenght" è
una cover del brano di Clapton con Robi nella duplice veste di chitarrista e
bassista. Ancora un rock blues dal titolo "The New Black Man" prelude
all'intensa ballad "Save My Soul" con la voce di Sabrina Kabua che si
integra alla perfezione con quella del leader. "Just For You" è uno dei
motivi più orecchiabili dell'intero disco, quello che potrebbe diventare un
hit single. Con "Tell Me Way" si torna a tempo di r'n'b: bella
l'interpretazione di Robi Zonca che, oltre ad essere strumentista di ottime
qualità, è dotato di una voce che raramente possiedono i cantanti italiani
che si confrontano con la musica americana. La sempreverde "Don't Let The
Sun Catch You Crying" è qui riproposta con la splendida voce di Luther Kent
che restituisce la magia che tuttora emana una delle canzoni più belle di
sempre. La tromba di Fabrizio Bosso da l'impronta alla ripresa di "Feel Like
Dancing R.", arrangiata a tutto jazz, che prelude alla conclusiva "I Know",
ballad acustica cantata con la coralità tipica della West Coast dei
settanta.
"So Good", realizzato tra Milano ed i Metropolis Studios di Londra, è un
grande disco, forse il più maturo fin qui prodotto dall'artista bergamasco. Robi Zonca: To Fill My Soul
Arriva
con metronomica puntualità il quinto disco di Robi Zonca. Il
chitarrista lombardo percorre con ammirevole costanza quella che può
essere considerata la sua seconda vita artistica, non risparmiandosi
affatto. Sa bene quanto sia necessario per crescere guardare avanti e
di come ciò che è stato già fatto appartenga al passato… Nuove
emozioni, avvenimenti, malinconie, o solo un riff di chitarra,
arriveranno a fornire l'ispirazione per scrivere nuove canzoni per i
dischi futuri.
In questo lavoro non si intravede la presenza di
ospiti internazionali o “altisonanti” (come li definisce lo stesso
Robi) eccezion fatta per Jantoman (al secolo Antonello Aguzzi), qui
nelle vesti di musicista e produttore assieme al bassista Paolo
Legramandi ed allo stesso autore. A volte, registrare soltanto con i
consueti compagni d'avventura può risultare "liberatorio" (soprattutto
quando in precedenza non si è certamente sofferta la macanza di guest
stars importanti). A giudicare dal risultato, la scelta appare davvero
azzeccata senza che il livello ne venga - per questo - sminuito (parola
di chi ha già commentato tre dei suoi lavori precedenti - vedi
archivio).
Nove delle dieci canzoni contenute nel CD portano - come in passato -
la sua firma, qui affiancato per i testi da Marco Grompi, poeta e leder
dei Rusties. L’unica cover proposta è, come sempre, un brano caro alla
memoria di Zonca. In questo caso la scelta è caduta su un motivo di Bob
Dylan del 1969, "Tonight I'll Be Standing Here With You", che il
musicista continua ad eseguire sovente dal vivo sin dai lontani anni
settanta.
La musica, nella sua totalità, non è solo Blues (nel senso più
tradizionale) anche se rimane legata ai canoni tipici della musica
nera. Robi Zonca ha trovato nel tempo, dopo aver esplorato diverse
soluzioni, un crossover che fa di lui un artista dalla personalità ben
precisa. Capirete che proprio questo non facilita uno screening pezzo
per pezzo dell'album in questione, vi segnalo pertanto i brani che
ritengo più significativi o - se preferite - quelli che ho trovato i
più vicini ai miei gusti.
"This Old Heart's Pounding" è un motivo dolcemente soulful che fa il
paio con la title track: entrambe sembrano evocare i fasti della mitica
Motown. E poi: la bellissima "Julia", con un suggestivo fascino
notturno; "I Like It My Way" dal divertente ritmo alla New Orleans ed
il conclusivo slow strumentale "Red Dress Blues".
Il disco risulta molto ben strutturato ed altrettanto gradevole. Vi
consiglio quindi di gustarlo sorseggiandolo come fareste con un buon
whisky. E’ disponibile in rete su CD Baby.
Paul Zunno Band:
Black & White and Blues All Over (USA)
One Sock
Da
New York un trio rock blues capitanato da Paul Zunno (voce e chitarra) il
cui cognome tradisce chiare origini italiane. Energia e volontà tra le
tracce del loro nuovo CD registrato, mixato e prodotto in totale autonomia.
Le coordinate sono quelle che si intersecano tra il blues tradizionale ed un
rock di chiara marca americana, un indirizzo che appassiona da circa trent'anni
e che trova nel live la sua ideale consacrazione. Black White and Blues
All Over - terzo lavoro della band - scorre piacevolmente tra momenti a
'tutto ritmo' e riflessioni chitarristiche di stampo seventies. In entrambe
i casi la 'Strato' di Paul Zunno esprime un suono deciso ed al contempo ben
misurato a dimostrazione di una buona maturità artistica. La lunga
esperienza del chitarrista è ricca infatti di collaborazioni con nomi
altisonanti, su tutti quello di Wilson Pickett nella cui band ha militato
assieme al bassista Zerrick Foster, oggi elemento della Paul Zunno Band.
Anche il batterista John Di Giulio può vantare trascorsi di tutto rispetto;
tra gli artisti a cui ha 'prestato' le sue bacchette risaltano i nomi di
Gary U.S. Bonds e Kenny Loggins, due autentiche star del pianeta rock a
stelle e strisce. Tornando al nuovo lavoro, la cosa che colpisce tra le 10
tracce proposte è la presenza di otto composizioni originali, segno di una
buona verve creativa. Tra queste sono da segnalare l'iniziale "I Found My
Soul" (sanguigno rock blues) ed "Howlin' Wolf" (dedicata al più rocker tra i
classici del blues) in cui l'ottima voce di Paul Zunno ha modo di trovare la
giusta ispirazione. Le due cover presenti nel CD sono l'arcinota "My Babe"
di Willie Dixon ed una bella versione di "So Long I'll See Ya" di Tom Waits
che sembrano voler sintetizzare la dimensione di quest'album. Un lavoro che,
sebbene non si distingua per uno spirito particolarmente innovativo, è senza
dubbio sincero e ben suonato. Sono certo che verrà apprezzato dagli amanti
del genere.
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