PREFAZIONE
 |
|
Il
Blues è uno dei fenomeni più importanti e coinvolgenti degli ultimi
cento anni di storia della musica.
La longevità e la freschezza che da sempre caratterizzano la "voce"
dei neri d’America, costituiscono ancor oggi la testimonianza più
tangibile dell’universalità di un idioma che affonda le sue origini
sul finire del 1800.
La storia del blues è la rappresentazione della tragedia di un
popolo e della sua riscossa, intesa come la più autentica e
viscerale attestazione di identità che, superati i naturali confini,
diventa facilmente estendibile a tutti gli uomini, qualunque sia il
colore della loro pelle. Non si spiegherebbe altrimenti il seguito
che la "Musica del diavolo" ( parleremo in seguito circa
l’origine di questo appellativo ) ha |
avuto e continua ad avere
presso tutti i musicisti che si sono alternati nelle varie epoche, negli
Stati Uniti così come in Europa.
Parenti
stretti del Blues sono il Jazz ed il Rock’n’Roll, le cui evoluzioni sono
arrivate fino ai nostri giorni con forme esteticamente molto distanti
dalle canoniche dodici battute ma delle quali, il più delle volte, ne
riportano lo spirito: basti pensare alle nuove correnti dell’Hip Hop che
esprimono il malessere del ghetto alla stregua dell’emarginazione che era
stata propria dei campi di cotone.
Si è
molto discusso tra gli studiosi sull’etimologia del termine Blues e sulle
sue potenziali applicazioni anche in altri contesti. Una canzone che parla
di violente pulsioni amorose piuttosto che narrare di fatti attinenti alla
quotidianità, esprimendo al contempo il turbinio di emozioni generate da
questi eventi, è da ritenersi un blues.
E’ anche
vero che il blues nasce da una realtà non certo borghese, un mondo nel
quale una voce accompagnata dalla chitarra e dall’armonica è l’unico sfogo
possibile per raccontare agli altri il proprio disagio. Si, perché il
blues è in generale espressione di malessere, anche se si allarga sovente
verso manifestazioni di sfrenata allegria, con l’ironia e l'uso di
toni goliardici (il più delle volte a sfondo erotico) volti ad esorcizzare
i demoni del male.
La
coerenza non è propria del blues, così come non lo è della natura
umana in senso più generale. Dalle imprecazioni di un uomo al quale
è stato rubato il suo danaro alle invocazioni al Signore perché la
propria anima abbia un posto in Paradiso, c’è il cammino di un
popolo violentato nella propria anima prima ancora che nell’identità
culturale e che cerca un avvenire che lo avvicini allo stile di vita
dell’uomo bianco rivolgendosi al Dio che ha conosciuto grazie ad
esso ma conservando, al contempo, memoria della sua terra d’origine,
delle tradizioni e degli Idoli dei padri. Ecco perché mi
pare opportuno ripercorrere, seppur brevemente, il viaggio senza
ritorno dal Continente Nero alle Americhe. |
|
 |
UN
VIAGGIO SENZA RITORNO
L’importazione degli schiavi dall’Africa divenne, in teoria, illegale dopo
il 1808 ma in pratica continuò fin dopo la Guerra Civile anche se in forma
di tollerata clandestinità.

La
legalizzazione dell’esercizio della schiavitù ha una data precisa, quel
1517 in cui gli spagnoli, incoraggiati dal vescovo Bartolomeo de Las Casas
a colonizzare il Nuovo Mondo, cominciarono la triste pratica del commercio
di uomini.
 |
|
I
primi "negroes" provenivano da una zona compresa tra il Senegal, il
Camerun e la Nuova Guinea, trasportati da navi olandesi, spagnole e
portoghesi. Ufficialmente, è nel 1619 a Jamestown che si assiste
alla formazione del primo nucleo di africani (una ventina circa) in
territorio americano. I deportati vissero, in quel periodo, una
condizione di semischiavitù, considerati servi nello "stile" europeo
anche se, con il galoppante sviluppo dell’economia delle colonie e
la crescente domanda di manodopera per l’agricoltura, si alimentò
ben presto il mercato delle "braccia da lavoro".
Stati come il Massachussetts, la Georgia e la Pensylvania, si
schierarono inizialmente contro la schiavitù, mentre in alcune
regioni come il Piedmont la popolazione nera, all’inizio del XIX
secolo, aveva già superato in quantità quella bianca. Tra il 1700 ed
il 1800, secondo stime ufficiali, il numero degli schiavi aumentò da
meno di un milione ad oltre tre milioni. |
In
America i neri non avevano alcun diritto, le condizioni di vita erano
davvero disumane e non c’era villaggio nel profondo Sud in cui non si
tenessero vendite di uomini all’asta nelle quali il prezzo era legato,
così come per il bestiame, alle capacità di resistenza alla fatica di
ciascun individuo. B.B. King racconta nel libro autobiografico "Il Blues
intorno a me" delle lunghe giornate trascorse a dissodare il terreno
seguendo il mulo che, con metronomica cadenza, gli scorreggiava sulla
faccia.
Ad
un Sud rurale nel quale la vita di un nero aveva un valore
inferiore a quello di un animale da soma, si contrapponeva un Nord
industriale nel quale la schiavitù era stata progressivamente
abolita. Nel 1860 il presidente Lincoln prese parte attiva nei
confronti dell’emancipazione dei neri causando la rivolta di stati
come Texas, Louisiana, Mississippi, Florida, Alabama, Georgia.
Cominciò così la Guerra di Secessione che aveva nella disputa sullo
schiavismo (almeno in apparenza...) una delle motivazioni primarie.
Gli anni della guerra
costituirono un’inesauribile fonte per l’industria cinematografica e
non c’è bambino al mondo che non sappia riconoscere la divisa color
blu di un soldato nordista da quella grigia del sudista.
|
|
 |
Il 9
aprile del 1865 la guerra ebbe fine con la fuga da Richmond del generale
Lee e con la conquista della Georgia da parte delle forze dell’Unione. Lo
schiavismo era ufficialmente bandito anche se già nel 1863 Lincoln aveva
promulgato la "Emancipation Proclamation" con la quale si rendeva illegale
questo genere di attività. Il principio fu in seguito sancito nel 13°
emendamento della Costituzione americana. Di fatto, il calvario della
gente nera sarebbe stato ancora ben lontano dal suo epilogo.
I CANTI
DI LAVORO E LA NASCITA DEL BLUES
La vita nelle
fattorie si svolgeva con la cadenza imposta dai durissimi turni di lavoro.
Il sole cocente in certe stagioni ed il caldo umido favorivano la crescita
del cotone e nelle immense piantagioni un solo uomo riusciva a
raccoglierne anche 200 chili in un giorno.
Le famiglie vivevano in baracche fatiscenti dove la stanza da bagno era
rappresentata da un buco scavato nel
terreno in qualche angolo di un unico, malsano, ambiente. Sembra
abbastanza chiaro come gran parte dei braccianti la cui salute, per
qualche motivo, fosse compromessa, morisse prematuramente. Ma la tempra
dell’uomo barbaramente deportato dalla sua Africa era straordinariamente
forte, forgiata dalla vita nella giungla o nella savana dalle quali aveva
portato usanze e tradizioni, balli e strumenti popolari, anche se, per
quel sadico segno del potere che ha costituito la spina dorsale di ogni
tirannia, ai deportati veniva impedito l’uso di strumenti a percussione ed
a fiato con la motivazione che questi potessero servire per trasmettere
messaggi, secondo quello che fu definito "Codice Nero". Si può impedire ad
un uomo di svolgere qualunque attività ma è impossibile sopprimere la sua
naturale necessità di esprimersi con i suoni. La voce era quindi lo
strumento per scandire i ritmi del lavoro, trasmettere messaggi,
raccontare delle storie nei momenti di riposo serale.
I cosiddetti "Hollers" usavano il canto nella maniera più atavica, per
comunicare a distanza proprio come avveniva nel Continente Nero; le "work
songs" erano - come è facile intuire – le canzoni di lavoro diffuse tanto
nei campi quanto nelle "chain gangs" carcerarie del Sud; il "Medicine
Show" era una sorta di spettacolo itinerante durante il quale ai canti, ai
balli ed alle gags, si frapponevano vendite di medicamenti e lozioni che
garantivano effetti miracolosi (cosa che avviene tutt’oggi nelle
televisioni di tutto il mondo, spesso con un atteggiamento altrettanto
vaudeville – n.d.r.).
I
primi bluesmen costruivano da soli i propri strumenti, la chitarra
era sovente ricavata da una comune scatola di cartone, il
contrabbasso era costituito da una corda tesa su un più che
tradizionale manico di scopa piantato in un bidone, ed anche l’asse
per lavare i panni (il celebre washboard) era utile allo scopo.
Sarà divertente osservare, nel corso degli anni successivi,
l’originale campionario di strumenti dei quali si sarebbero serviti
musicisti come Jesse "Lone Cat" Fuller – storico one man band della
Georgia – che si esibiva per strada suonando contemporaneamente la
chitarra, l’armonica, una grancassa che teneva sulle spalle, ed uno
strano arnese che aveva battezzato "fotdella", ovvero una sorta di
basso che riusciva ad azionare con le dita dei piedi.
|
|
 |
 |
|
La
fine della schiavitù, pur non modificando la condizione sociale del
popolo nero, gli dava la possibilità di viaggiare (più o meno
liberamente) e di usufruire della lottizzazione di appezzamenti di
terreno da coltivare in proprio. Furono molti quelli che scelsero la
strada dell’avventura verso quel Nord industriale, prodigo di lavoro
e danaro, che da sempre aveva rappresentato nell’immaginario di
musicisti e girovaghi, il luogo in cui rifarsi una vita nel segno
del riscatto. Su quelle strade polverose chiamate Highway 61 e Rout
66, piene di imprevisti ed avventure, si svolse l’epopea del Blues. |
LA
SINTASSI DELLE DODICI BATTUTE
Il Blues è una struttura musicale di dodici misure (battute) composta da
tre frasi di quattro misure che insistono intorno a tre accordi basati
sulla prima, la quarta e la quinta nota della scala (tonica,
sottodominante,
dominante).
A ciascun verso cantato segue un’improvvisazione strumentale secondo una
sequenza di chiamata e risposta con uno schema - la cui origine si fa
risalire alle scale pentatoniche africane - segnato dall’alterazione (piegamento o "bemollizzazione")
della terza e della settima nota della scala diatonica (le cosiddette blue
notes). Sono state avanzate diverse teorie per spiegare le blue notes;
secondo una di queste (probabilmente la più accreditata) è possibile
immaginare che, non avendo le scale pentatoniche africane i semitoni, i
primi schiavi giunti nel continente americano avessero adattato la scala
pentatonica maggiore abbasando i due semitoni, uno tra il terzo ed il
quarto grado e l’altro tra il settimo e l’ottavo, nell’intento di
ritrovare gli intervalli ai quali erano abituati. Il confronto tra
l’armonia europea e le blue notes melodiche di origine africana darà luogo
al famoso colore bluesy che interesserà musicisti come Ravel e Stravinskij
agli inizi del XX secolo.
Ai primi
osservatori del fenomeno blues sembrò che le strutture musicali fossero in
tonalità minore poiché gli accordi del I e del IV grado prendevano una
settima minore diventando così pseudodominanti; in realtà fu soltanto
intorno al 1926 che, grazie ad artisti come Duke Ellington, si ebbe un
significativo utilizzo dei blues in minore.
Il Blues
"rurale", nonostante tutto, variava abbastanza e non si può dire che
avesse uno schema rigido; i musicisti seguivano spesso un proprio feeling
non badando eccessivamente alla regolarità metrica (John Lee Hooker ne è
l’esempio più autorevole), così le dodici battute diventavano otto o
sedici secondo una logica, spesso eccentrica, in cui il testo assumeva
rilevanza prioritaria rispetto alla musica stessa. Nel caso dei "talkin’
blues" il testo era parlato (sorta di rap ante litteram) e la base
musicale assolutamente estemporanea.
In
generale ogni frase cantata occupava due misure ed era seguita da due
misure di risposta strumentale. E’ interessante notare come certi bluesmen
cambiassero parzialmente le parole originali di una canzone per adattarle
alle parafrasi melodico-ritmiche che improvvisavano sul momento.
Il
racconto del Blues ha sue precise caratteristiche. A differenza della
ballata non è ciclico e narrativo ed in questo senso si può
definire più moderno. Si svolge in prima persona e, sia che venga diretto
ad un singolo
evento o ad una serie di episodi e situazioni apparentemente slegate,
suggerisce comunque un unico stato d’animo. Il verso ha la franchezza
colloquiale del linguaggio di tutti i giorni, quello della strada, e
riesce a conferire dignità poetica a quel complesso di immagini simboliche
che ne rappresentano l’aspetto creativo. Fondamentale è il ricorso al
doppio senso, il cosiddetto "double talk", adattato il più delle volte ad
argomenti di natura erotica. I riferimenti sono tratti dalla vita
quotidiana: animali, piante, strumenti di lavoro e di trasporto (il
treno, in particolare, ha un significato ben preciso) sono incaricati di
sostituirsi, in molti casi, ad attributi intimi. Robert Johnson cantava in
Phonograph Blues: "… e lo suonammo sul divano, e lo suonammo contro il
muro, ma la mia puntina si è arrugginita e non vuol suonare affatto…"; Big
Bill Broonzy: "… hai una bella macchina, tesoro, ma troppi autisti al tuo
volante…"; ed ancora: "… ho i movimenti di un motore Ford nei miei
fianchi, garantiti per diecimila miglia…".
E se il
racconto aveva, come detto, la profonda dialettica del ghetto, gli stili
musicali si sono formati legandosi alla cultura bianca ed ai suoi
strumenti, assumendo caratteristiche proprie delle zone d’origine. Dal
Delta del Mississippi alla fredda Chicago si sono mossi un’infinità di
personaggi che hanno modellato, attorno ad una musica semplice ed
istintiva, le tante forme che oggi si possono osservare.
REGIONI, STILI, LEGGENDE
Il Delta del Mississippi
(ovvero il luogo più spietato nei confronti dei neri) è da considerarsi
come la vera culla del Blues e Charlie Patton (1887-1934) il suo primo,
grande, profeta.
Come per
altri artisti della prima ora, di Patton si sa ben poco (nel suo caso come
in quello di Robert Johnson, è
grazie ad una solo fotografia che se ne conosce il volto); non esistevano
infatti documenti ufficiali per i lavoratori neri e gran parte della
storia di quel periodo è stata scritta grazie ai racconti di chi ha
conosciuto in prima persona i musicisti diventati in seguito oggetto di
ricerca da parte degli etnomusicologi. Quasi sempre dalle narrazioni sono
emersi profili di personalità particolarmente eccentriche, dedite al bere
ed a qualunque forma di "vizio", abituali frequentatori di penitenziari e
donnaioli impenitenti. Son House, Skip James, Bukka White, Mississippi
John Hurt, ed il celebre Robert Johnson, furono i pionieri che
registrarono le proprie canzoni, destinate all’epoca (erano i primi
decenni del secolo) al circuito dei "race records", i dischi rivolti
esclusivamente alla comunità di colore.
 |
|
E’
facile intuire come, in quelle condizioni socioculturali, nascessero
delle autentiche leggende che, non avendo mai avuto riscontri
concreti in grado di sconfessarle, sono diventate la struttura
portante della storia del Blues.
La figura di Robert Johnson ha incarnato tutta la magia ed il
mistero del Blues. "Se il Blues sta nel cuore della musica
americana, Robert Johnson sta nel cuore del Blues, misterioso ed
affascinante mito prima ancora che musicista in carne ed ossa" (Peter
Guralnick da "Robert Johnson – In cerca del re del Blues"). |
Il
musicista del Mississippi nacque presumibilmente l’8 maggio del 1911,
undicesimo figlio di Julia Major Dodds. Poiché figlio illegittimo, la sua
vita (come pure la morte avvenuta in circostanze poco chiare) è stata
sempre avvolta da una coltre di nebbia tanto fitta da creare confusione
persino sull’autenticità del nome. La leggenda racconta che il giovane
Johnson, aspirante musicista, avesse fatto un patto con il Diavolo il
quale gli aveva donato una straordinaria capacità artistica in cambio
della sua anima. Egli stesso raccontò di aver conosciuto un tale di nome
Ike Zimmerman del quale si diceva che avesse scoperto il mistero del Blues
suonando di notte nei cimiteri. L’incontro era avvento all’incrocio fra
due strade, il famoso "crossroads", che costituirà lo spunto per tutta una
serie di films che renderanno quasi hollywoodiana la figura di Robert
Johnson. Delle indubbie capacità vocali e dello stile chitarristico
sublime è rimasta traccia in ventotto brani registrati nel 1936 nel corso
di tre sessioni consecutive che, se non hanno arricchito il suo autore,
hanno indubbiamente spianato la strada a quei musicisti bianchi (E.
Clapton ed i Rolling Stones su tutti) che ne hanno riproposto le covers in
anni certamente più propizi per la diffusione discografica. Johnson morì
avvelenato dal marito di una delle sue tante amanti in una triste notte
dell’estate del 1938, all’età di soli ventisette anni.
Se il
Mississippi è stato il luogo d’origine del Blues down home, altre regioni
del Nord America sono state interessate dal movimento musicale, cosa che
ha consentito lo sviluppo di caratteristiche proprie in ognuna di esse.
La costa
orientale ha prodotto musicisti spesso brillanti, situati tra il jazz, il
ragtime ed il blues. Blind Blake, Blind Willies McTell, il famosissimo
reverendo Gary Davis, Blind Boy Fuller, l’armonicista Sonny Terry, sono
solo alcuni dei giganti di quell’area geografica.
Il Texas
blues è stato particolarmente originale grazie ad artisti come Blind Lemon
Jefferson (il più celebre e rappresentativo), Leadbelly, Texas Alexander,
Lightinin’ Hopkins e T-Bone Walker tra gli altri. Il suono di questa
regione era caratterizzato da una forte influenza latinoamericana, con uno
stile chitarristico molto vicino al flamenco e con dei testi meno cupi e
più brillanti di quelli del Delta.
Memphis fu la città che diede il suo nome al Blues. Proprio nel
grosso centro del Tennessee, un autore di nome W.C. Handy riportò
per la prima volta sullo spartito, quei temi che fino ad allora si
erano tramandati per fonte orale (The Memphis Blues, Beale Street
Blues).
Importante porto e
strategico nodo stradale e ferroviario, la città di Memphis ha
rappresentato un polo di attrazione negli spostamenti migratori
verso le realtà industriali del Nord. Qui nacquero importanti case
discografiche come la Sun Record e la Stax che raccoglievano le
espressioni più svariate della musica nera: Soul, Jazz, Gospel,
Blues e R&B. Furono questi i generi lanciati da personaggi come
Furry Lewis, Memphis Minnie (una delle prime donne che oltre a
cantare si accompagnavano con la chitarra), Sleepy John Estes,
l’armonicista Sonny Boy Williamson II (che nel vicino Arkansas
diffondeva il Blues attraverso la radio con il programma King
Biscuit Time), Walter Horton, James Cotton, Howlin’ Wolf, B.B. King,
Bobby Bland e Johnny Ace. |
|
 |
Nella
multietnica New Orleans, colonia prima spagnola e poi francese fino al
1803, il Blues era soltanto uno dei generi musicali che si potevano
ascoltare. Terra d’origine del Jazz, che i primi pianisti suonavano nelle
"barrelhouse" (i bordelli del quartiere Storyville) e grazie alla
moltitudine di culture che proprio qui erano venute a contatto, la "Crescent
City" produsse infinite combinazioni di suoni che si adattavano tanto alle
feste come il carnevale creolo o "Mardi Grass" quanto ai funerali, con gli
immancabili ottoni ed i caratteristici suoni dixieland. Pianisti come
Professor Longhair e Champion Jack Dupree, compositori come Allein
Tussaint e Doc Pomus, cantanti come Fats Domino e Little Richard negli
anni successivi, hanno fatto la storia di questa città davvero unica.
 |
|
St.
Louis, Missouri, collocata a metà strada fra New Orleans e Chicago,
divenne un’importante stazione di sosta nelle migrazioni delle
popolazioni nere e fu qui che si sviluppò il fenomeno delle "riverboat
bands", le orchestre che suonavano sui battelli in viaggio lungo il
fiume Mississippi. Anche se a St. Louis predominavano i pianisti (Roosvelt
Sykes, Peetie Wheatstraw, Leroy Carr), non mancavano di certo
chitarristi, come Scrapper Blakwell, in grado di creare uno stile
assolutamente originale. |
SWEET
HOME CHICAGO
Il flusso
migratorio dei lavoratori neri in cerca di occupazione (e di miglior
fortuna) ebbe, nella maggior parte dei casi, una comune meta: Chicago. La
capitale dell’Illinois era sede di numerosi agglomerati industriali e di
conseguenza la richiesta di manodopera per ferrovie, acciaierie, e per i
famigerati "stockyards" (i macelli della zona sudoccidentale della città),
alimentò le aspettative dei tanti disperati che, con mezzi di fortuna,
pochi quattrini e tanti sogni, si misero in viaggio dagli Stati
meridionali.
 |
|
La
Windy City (cosi chiamata per i forti venti provenienti dal lago
Michigan) diventò, nel primo decennio del secolo, la Mecca per le
comunità di colore che si stabilirono in gran parte nella vasta area
della zona Sud, quel "South Side" nel quale nacquero
vertiginosamente studi di registrazione, locali notturni e case
discografiche (da ricordare la Chess Record, la Vee-Jay, e la
Cobra). Il numero degli abitanti neri sul totale della popolazione
bianca passò dalle 100 unità su 4.000 nel 1837 alle 110.000 su 2
milioni nel 1920. Particolarmente numeroso il contingente di
musicisti che da New Orleans si spostò a Chicago dopo la chiusura
del quartiere a luci rosse di Storyville decretata dalla Marina
Americana nel 1917. |
Il Jazz,
prima ancora del Blues, alimentò la vita dei locali notturni (sviluppatisi
nel frattempo anche nella "West Side" della città) grazie ad artisti come
Tommy Ladnier, Freddie Keppard, King Oliver, la cantante Bessie Smith ed
un tale trombettista di nome Louis Armstrong.
Un Blues
più schietto e verace prese piede invece nelle taverne e nei "rent parties"
della South Side grazie a musicisti come Tampa Red, John Lee "Sonny Boy"
Williamson (da non confondere con Rice Miller o Sonny Boy Willamson II) e
Big Bill Broonzy che, alla fine della seconda guerra mondiale, diedero
vita al cosiddetto "Bluebird Beat", dal nome dell’etichetta discografica
RCA-Bluebird del produttore Lester Melrose.
Big Bill
Broonzy (Scott, Mississippi, 1893 – Chicago, Illinois, 1958) si trasferì a
Chicago negli anni venti costruendosi la fama di virtuoso della chitarra.
Lasciò però ben presto l’originale suono del Delta, del quale aveva
esportato tutta la magia, in favore di una musica che, arricchita ed
ingentilita dagli ottoni, avrebbe svoltato verso atmosfere dal sapore "jazzy"
rompendo progressivamente i legami con la tradizione rurale.
Ma la vera rivoluzione nel
Blues avvenne quando arrivò a Chicago un bracciante agricolo nato a
Rolling Fork,
Mississippi, nel 1915 il cui vero nome era McKinley Morganfield ma che il
mondo avrebbe conosciuto come Muddy Waters
(letteralmente: acque fangose).
Risulta davvero
incalcolabile l’influenza che Muddy Waters ha avuto sui
musicisti bianchi e neri coinvolti e
profondamente
affascinati da quei suoni. I Rolling Stones (il gruppo rock più celebre di
tutti i tempi) hanno preso
nome proprio dal titolo di un suo brano ed anche una tra le riviste
americane più conosciute nel mondo, simbolo della controcultura degli anni
sessanta, se n'è appropriata nell'intestazione: il Rolling Stones
magazine.
Se per il Chicago Blues, così come è conosciuto universalmente, si vuole
stabilire una data d’inizio, questa fu, senza alcun dubbio, quel 1948 in
cui il cantante e chitarrista registrò "I Can’t Be Satisfied" nella quale
confluirono le reminiscenze di un Blues "down home" esasperato
dall’elettrificazione degli strumenti che era avvenuta in maniera
massiccia in quegli anni. Nella band di Muddy transitò il gotha di
Chicago, una lunga lista nella quale hanno brillato i nomi dei
chitarristi: Jimmy Rogers, Buddy Guy (che con Otis Rush e Magic Sam darà
vita al fertile movimento del "West Side Blues"), Luther "Guitar Jr."
Johnson, Bob Margolin, Pat Hare (condannato all’ergastolo per aver ucciso
la moglie!); degli armonicisti: Little Walter, James Cotton, Junior Wells,
Big Walter Horton, George "Harmonica" Smith; dei pianisti: Otis Span,
Lafayette Leake, Pinetop Perkins; dei batteristi: Fred Below, Francis Clay,
Willie Smith.
E se
Muddy Waters rimane ancor oggi l’idolo incontrastato del Chicago Blues,
artisti come Elmore James, Howlin’ Wolf ed il contrabbassista e produttore
Willie Dixon (anch’egli elemento stabile nel combo di Waters),
contribuirono considerevolmente alla consacrazione di quel genere che
avrebbe dato direttamente vita al Rock’n’Roll come profeticamente recitava
il titolo di una canzone dello stesso Muddy Waters: "I Blues hanno avuto
un figlio e l’anno chiamato Rock’n’Roll".
IL
BLUES NEL TERZO MILLENNIO
Se negli anni sessanta le frontiere per il Blues si allargarono anche al
di qua dell’Atlantico grazie all’entusiasmo di giovani musicisti inglesi
ed alla missione di "evangelizzazione" svolta da artisti come Sonny Boy,
Muddy Waters e Big Bill Broonzy, gli anni settanta ne segnarono un netto
declino. Nel caotico evolversi delle nuove tendenze furono ben pochi a
rimanere a galla. Su tutti B.B. King ed Albert King che, per orientamento
artistico ed acume manageriale, riuscirono a far fruttare un naturale
cossover ben orientato verso quel R&B-Soul imperante che nel frattempo si
era sostituito al Blues tradizionale nei gusti delle nuove generazioni
nere.
Bisognerà
attendere gli anni ottanta per assistere alla "Blues Explosion" scatenata
dal film di John Landis, The Blues Brothers. Un successo dalle proporzioni
enormi che, grazie alla simpatia ed al mecenatismo degli attori-musicisti
John Belushi e Dan Aykroyd, ha riaperto le porte delle case discografiche
ad artisti che non riuscivano più ad andare oltre il cosiddetto sottobosco
dei clubs americani. Tra questi, tanti eroi della musica nera come Cab
Calloway, Aretha Franklin, Ray Charles, Matt "Guitar" Murphy, Steve
Cropper e James Brown, solo per citare i più famosi.
Da quel
momento è stato un fiorire di etichette specializzate nella musica Blues
tanto negli Stati Uniti quanto in Europa. La Alligator e la Dellmark a
Chicago, la Black Top e la Rounder a New Orleans, la CrossCut in Germania
e la milanese Appaloosa in Italia.
Molti
giovani artisti si affacciano oggi sulla scena internazionale cimentandosi
con una musica che, da tempi ormai remoti, ha trasmesso il suo linguaggio
agli uomini di tutte le razze.
Robert
Cray, Joe Louis Walker, Keb' Mo', esponenti di spicco tra le ultime leve
dei musicisti di colore, propongono una evoluzione del linguaggio
originario verso sonorità fortemente contaminate da accenti pop che,
nonostante siano state fino ad oggi mal digerite dagli appassionati più
integralisti, hanno consentito al Blues di scalare i vertici delle
classifiche.

|
|
Steevie Ray Vaughan (scomparso a seguito di un incidente di volo
nell’agosto del 1990, all’età di trentasei anni) ha rappresentato,
per i più, il diretto discendente dei grandi chitarristi del
passato, capace di coniugare il classico Blues ad un suono
prepotentemente Rock, restituendo così linfa vitale alla musica del
diavolo.
E’ infatti merito di una schiera numerosa di artisti bianchi l'aver
risvegliato un interesse più ampio nei confronti degli ormai pochi
bluesmen DOC ancora in vita che continuano a calcare le scene quali
testimoni ed interpreti di una musica antica, traghettata con immutato
fascino nel terzo millennio e certamente in grado di acquisire nuovi
proseliti.
|
|