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BLUES STORY - Piccola storia della Musica del Diavolo
a cura di Michele Lotta

PREFAZIONE


  Il Blues è uno dei fenomeni più importanti e coinvolgenti degli ultimi cento anni di storia della musica. 
La longevità e la freschezza che da sempre caratterizzano la "voce" dei neri d’America, costituiscono ancor oggi la testimonianza più tangibile dell’universalità di un idioma che affonda le sue origini sul finire del 1800.
La storia del blues è la rappresentazione della tragedia di un popolo e della sua riscossa, intesa come la più autentica e viscerale attestazione di identità che, superati i naturali confini, diventa facilmente estendibile a tutti gli uomini, qualunque sia il colore della loro pelle. Non si spiegherebbe altrimenti il seguito che la "Musica del diavolo"  ( parleremo in seguito circa l’origine di questo appellativo )  ha

avuto e continua ad avere presso tutti i musicisti che si sono alternati nelle varie epoche, negli Stati Uniti così come in Europa.

Parenti stretti del Blues sono il Jazz ed il Rock’n’Roll, le cui evoluzioni sono arrivate fino ai nostri giorni con forme esteticamente molto distanti dalle canoniche dodici battute ma delle quali, il più delle volte, ne riportano lo spirito: basti pensare alle nuove correnti dell’Hip Hop che esprimono il malessere del ghetto alla stregua dell’emarginazione che era stata propria dei campi di cotone.

Si è molto discusso tra gli studiosi sull’etimologia del termine Blues e sulle sue potenziali applicazioni anche in altri contesti. Una canzone che parla di violente pulsioni amorose piuttosto che narrare di fatti attinenti alla quotidianità, esprimendo al contempo il turbinio di emozioni generate da questi eventi, è da ritenersi un blues.

E’ anche vero che il blues nasce da una realtà non certo borghese, un mondo nel quale una voce accompagnata dalla chitarra e dall’armonica è l’unico sfogo possibile per raccontare agli altri il proprio disagio. Si, perché il blues è in generale espressione di malessere, anche se si allarga sovente verso manifestazioni di sfrenata allegria, con  l’ironia e l'uso di toni goliardici (il più delle volte a sfondo erotico) volti ad esorcizzare i demoni del male.

La coerenza non è propria del blues, così come non lo è della natura umana in senso più generale. Dalle imprecazioni di un uomo al quale è stato rubato il suo danaro alle invocazioni al Signore perché la propria anima abbia un posto in Paradiso, c’è il cammino di un popolo violentato nella propria anima prima ancora che nell’identità culturale e che cerca un avvenire che lo avvicini allo stile di vita dell’uomo bianco rivolgendosi al Dio che ha conosciuto grazie ad esso ma conservando, al contempo, memoria della sua terra d’origine, delle tradizioni e degli Idoli dei padri. Ecco perché  mi pare opportuno ripercorrere, seppur brevemente, il viaggio senza ritorno dal Continente Nero alle Americhe.


 

UN VIAGGIO SENZA RITORNO


L’importazione degli schiavi dall’Africa divenne, in teoria, illegale dopo il 1808 ma in pratica continuò fin dopo la Guerra Civile anche se in forma di tollerata clandestinità.


La legalizzazione dell’esercizio della schiavitù ha una data precisa, quel 1517 in cui gli spagnoli, incoraggiati dal vescovo Bartolomeo de Las Casas a colonizzare il Nuovo Mondo, cominciarono la triste pratica del commercio di uomini.


I primi "negroes" provenivano da una zona compresa tra il Senegal, il Camerun e la Nuova Guinea, trasportati da navi olandesi, spagnole e portoghesi. Ufficialmente, è nel 1619 a Jamestown che si assiste alla formazione del primo nucleo di africani (una ventina circa) in territorio americano. I deportati vissero, in quel periodo, una condizione di semischiavitù, considerati servi nello "stile" europeo anche se, con il galoppante sviluppo dell’economia delle colonie e la crescente domanda di manodopera per l’agricoltura, si alimentò ben presto il mercato delle "braccia da lavoro".
Stati come il Massachussetts, la Georgia e la Pensylvania, si schierarono inizialmente contro la schiavitù, mentre in alcune regioni come il Piedmont la popolazione nera, all’inizio del XIX secolo, aveva già superato in quantità quella bianca. Tra il 1700 ed il 1800, secondo stime ufficiali, il numero degli schiavi aumentò da meno di un milione ad oltre tre milioni.

In America i neri non avevano alcun diritto, le condizioni di vita erano davvero disumane e non c’era villaggio nel profondo Sud in cui non si tenessero vendite di uomini all’asta nelle quali il prezzo era legato, così come per il bestiame, alle capacità di resistenza alla fatica di ciascun individuo. B.B. King racconta nel libro autobiografico "Il Blues intorno a me" delle lunghe giornate trascorse a dissodare il terreno seguendo il mulo che, con metronomica cadenza, gli scorreggiava sulla faccia.

Ad un Sud rurale nel quale la vita di un nero aveva un valore inferiore a quello di un animale da soma, si contrapponeva un Nord industriale nel quale la schiavitù era stata progressivamente abolita. Nel 1860 il presidente Lincoln prese parte attiva nei confronti dell’emancipazione dei neri causando la rivolta di stati come Texas, Louisiana, Mississippi, Florida, Alabama, Georgia. Cominciò così la Guerra di Secessione che aveva nella disputa sullo schiavismo (almeno in apparenza...) una delle motivazioni primarie.
Gli anni della guerra costituirono un’inesauribile fonte per l’industria cinematografica e non c’è bambino al mondo che non sappia riconoscere la divisa color blu di un soldato nordista da quella grigia del sudista.





Il 9 aprile del 1865 la guerra ebbe fine con la fuga da Richmond del generale Lee e con la conquista della Georgia da parte delle forze dell’Unione. Lo schiavismo era ufficialmente bandito anche se già nel 1863 Lincoln aveva promulgato la "Emancipation Proclamation" con la quale si rendeva illegale questo genere di attività. Il principio fu in seguito sancito nel 13° emendamento della Costituzione americana. Di fatto, il calvario della gente nera sarebbe stato ancora ben lontano dal suo epilogo.

 

 

 

I CANTI DI LAVORO E LA NASCITA DEL BLUES


La vita nelle fattorie si svolgeva con la cadenza imposta dai durissimi turni di lavoro. Il sole cocente in certe stagioni ed il caldo umido favorivano la crescita del cotone e nelle immense piantagioni un solo uomo riusciva a raccoglierne anche 200 chili in un giorno.
 
Le famiglie vivevano in baracche fatiscenti dove la stanza da bagno era rappresentata da un buco scavato nel
terreno in qualche angolo di un unico, malsano, ambiente. Sembra abbastanza chiaro come gran parte dei braccianti la cui salute, per qualche motivo, fosse compromessa, morisse prematuramente. Ma la tempra dell’uomo barbaramente deportato dalla sua Africa era straordinariamente forte, forgiata dalla vita nella giungla o nella savana dalle quali aveva portato usanze e tradizioni, balli e strumenti popolari, anche se, per quel sadico segno del potere che ha costituito la spina dorsale di ogni tirannia, ai deportati veniva impedito l’uso di strumenti a percussione ed a fiato con la motivazione che questi potessero servire per trasmettere messaggi, secondo quello che fu definito "Codice Nero". Si può impedire ad un uomo di svolgere qualunque attività ma è impossibile sopprimere la sua naturale necessità di esprimersi con i suoni. La voce era quindi lo strumento per scandire i ritmi del lavoro, trasmettere messaggi, raccontare delle storie nei momenti di riposo serale. 

I cosiddetti "Hollers" usavano il canto nella maniera più atavica, per comunicare a distanza proprio come avveniva nel Continente Nero; le "work songs" erano - come è facile intuire – le canzoni di lavoro diffuse tanto nei campi quanto nelle "chain gangs" carcerarie del Sud; il "Medicine Show" era una sorta di spettacolo itinerante durante il quale ai canti, ai balli ed alle gags, si frapponevano vendite di medicamenti e lozioni che garantivano effetti miracolosi (cosa che avviene tutt’oggi nelle televisioni di tutto il mondo, spesso con un atteggiamento altrettanto vaudeville – n.d.r.).

I primi bluesmen costruivano da soli i propri strumenti, la chitarra era sovente ricavata da una comune scatola di cartone, il contrabbasso era costituito da una corda tesa su un più che tradizionale manico di scopa piantato in un bidone, ed anche l’asse per lavare i panni (il celebre washboard) era utile allo scopo.

Sarà divertente osservare, nel corso degli anni successivi, l’originale campionario di strumenti dei quali si sarebbero serviti musicisti come Jesse "Lone Cat" Fuller – storico one man band della Georgia – che si esibiva per strada suonando contemporaneamente la chitarra, l’armonica, una grancassa che teneva sulle spalle, ed uno strano arnese che aveva battezzato "fotdella", ovvero una sorta di basso che riusciva ad azionare con le dita dei piedi.
 



La fine della schiavitù, pur non modificando la condizione sociale del popolo nero, gli dava la possibilità di viaggiare (più o meno liberamente) e di usufruire della lottizzazione di appezzamenti di terreno da coltivare in proprio. Furono molti quelli che scelsero la strada dell’avventura verso quel Nord industriale, prodigo di lavoro e danaro, che da sempre aveva rappresentato nell’immaginario di musicisti e girovaghi, il luogo in cui rifarsi una vita nel segno del riscatto. Su quelle strade polverose chiamate Highway 61 e Rout 66, piene di imprevisti ed avventure, si svolse l’epopea del Blues.

 

LA SINTASSI DELLE DODICI BATTUTE


Il Blues è una struttura musicale di dodici misure (battute) composta da tre frasi di quattro misure che insistono intorno a tre accordi basati sulla prima, la quarta e la quinta nota della scala (tonica, sottodominante,
dominante). A ciascun verso cantato segue un’improvvisazione strumentale secondo una sequenza di chiamata e risposta con uno schema - la cui origine si fa risalire alle scale pentatoniche africane - segnato dall’alterazione (piegamento o "bemollizzazione") della terza e della settima nota della scala diatonica (le cosiddette blue notes). Sono state avanzate diverse teorie per spiegare le blue notes; secondo una di queste (probabilmente la più accreditata) è possibile immaginare che, non avendo le scale pentatoniche africane i semitoni, i primi schiavi giunti nel continente americano avessero adattato la scala pentatonica maggiore abbasando i due semitoni, uno tra il terzo ed il quarto grado e l’altro tra il settimo e l’ottavo, nell’intento di ritrovare gli intervalli ai quali erano abituati. Il confronto tra l’armonia europea e le blue notes melodiche di origine africana darà luogo al famoso colore bluesy che interesserà musicisti come Ravel e Stravinskij agli inizi del XX secolo.

Ai primi osservatori del fenomeno blues sembrò che le strutture musicali fossero in tonalità minore poiché gli accordi del I e del IV grado prendevano una settima minore diventando così pseudodominanti; in realtà fu soltanto intorno al 1926 che, grazie ad artisti come Duke Ellington, si ebbe un significativo utilizzo dei blues in minore.

Il Blues "rurale", nonostante tutto, variava abbastanza e non si può dire che avesse uno schema rigido; i musicisti seguivano spesso un proprio feeling non badando eccessivamente alla regolarità metrica (John Lee Hooker ne è l’esempio più autorevole), così le dodici battute diventavano otto o sedici secondo una logica, spesso eccentrica, in cui il testo assumeva rilevanza prioritaria rispetto alla musica stessa. Nel caso dei "talkin’ blues" il testo era parlato (sorta di rap ante litteram) e la base musicale assolutamente estemporanea.

In generale ogni frase cantata occupava due misure ed era seguita da due misure di risposta strumentale. E’ interessante notare come certi bluesmen cambiassero parzialmente le parole originali di una canzone per adattarle alle parafrasi melodico-ritmiche che improvvisavano sul momento.

Il racconto del Blues ha sue precise caratteristiche. A differenza della ballata non è ciclico e narrativo ed in questo senso si può definire più moderno. Si svolge in prima persona e, sia che venga diretto ad un singolo evento o ad una serie di episodi e situazioni apparentemente slegate, suggerisce comunque un unico stato d’animo. Il verso ha la franchezza colloquiale del linguaggio di tutti i giorni, quello della strada, e riesce a conferire dignità poetica a quel complesso di immagini simboliche che ne rappresentano l’aspetto creativo. Fondamentale è il ricorso al doppio senso, il cosiddetto "double talk", adattato il più delle volte ad argomenti di natura erotica. I riferimenti sono tratti dalla vita quotidiana: animali, piante, strumenti di lavoro e di trasporto (il treno, in particolare, ha un significato ben preciso) sono incaricati di sostituirsi, in molti casi, ad attributi intimi. Robert Johnson cantava in Phonograph Blues: "… e lo suonammo sul divano, e lo suonammo contro il muro, ma la mia puntina si è arrugginita e non vuol suonare affatto…"; Big Bill Broonzy: "… hai una bella macchina, tesoro, ma troppi autisti al tuo volante…"; ed ancora: "… ho i movimenti di un motore Ford nei miei fianchi, garantiti per diecimila miglia…".

E se il racconto aveva, come detto, la profonda dialettica del ghetto, gli stili musicali si sono formati legandosi alla cultura bianca ed ai suoi strumenti, assumendo caratteristiche proprie delle zone d’origine. Dal Delta del Mississippi alla fredda Chicago si sono mossi un’infinità di personaggi che hanno modellato, attorno ad una musica semplice ed istintiva, le tante forme che oggi si possono osservare.

 

REGIONI, STILI, LEGGENDE


Il Delta del Mississippi (ovvero il luogo più spietato nei confronti dei neri) è da considerarsi come la vera culla del Blues e Charlie Patton (1887-1934) il suo primo, grande, profeta.

Come per altri artisti della prima ora, di Patton si sa ben poco (nel suo caso come in quello di Robert Johnson, è grazie ad una solo fotografia che se ne conosce il volto); non esistevano infatti documenti ufficiali per i lavoratori neri e gran parte della storia di quel periodo è stata scritta grazie ai racconti di chi ha conosciuto in prima persona i musicisti diventati in seguito oggetto di ricerca da parte degli etnomusicologi. Quasi sempre dalle narrazioni sono emersi profili di personalità particolarmente eccentriche, dedite al bere ed a qualunque forma di "vizio", abituali frequentatori di penitenziari e donnaioli impenitenti. Son House, Skip James, Bukka White, Mississippi John Hurt, ed il celebre Robert Johnson, furono i pionieri che registrarono le proprie canzoni, destinate all’epoca (erano i primi decenni del secolo) al circuito dei "race records", i dischi rivolti esclusivamente alla comunità di colore.


E’ facile intuire come, in quelle condizioni socioculturali, nascessero delle autentiche leggende che, non avendo mai avuto riscontri concreti in grado di sconfessarle, sono diventate la struttura portante della storia del Blues.
La figura di Robert Johnson ha incarnato tutta la magia ed il mistero del Blues. "Se il Blues sta nel cuore della musica americana, Robert Johnson sta nel cuore del Blues, misterioso ed affascinante mito prima ancora che musicista in carne ed ossa" (Peter Guralnick da "Robert Johnson – In cerca del re del Blues"). 

Il musicista del Mississippi nacque presumibilmente l’8 maggio del 1911, undicesimo figlio di Julia Major Dodds. Poiché figlio illegittimo, la sua vita (come pure la morte avvenuta in circostanze poco chiare) è stata sempre avvolta da una coltre di nebbia tanto fitta da creare confusione persino sull’autenticità del nome. La leggenda racconta che il giovane Johnson, aspirante musicista, avesse fatto un patto con il Diavolo il quale gli aveva donato una straordinaria capacità artistica in cambio della sua anima. Egli stesso raccontò di aver conosciuto un tale di nome Ike Zimmerman del quale si diceva che avesse scoperto il mistero del Blues suonando di notte nei cimiteri. L’incontro era avvento all’incrocio fra due strade, il famoso "crossroads", che costituirà lo spunto per tutta una serie di films che renderanno quasi hollywoodiana la figura di Robert Johnson. Delle indubbie capacità vocali e dello stile chitarristico sublime è rimasta traccia in ventotto brani registrati nel 1936 nel corso di tre sessioni consecutive che, se non hanno arricchito il suo autore, hanno indubbiamente spianato la strada a quei musicisti bianchi (E. Clapton ed i Rolling Stones su tutti) che ne hanno riproposto le covers in anni certamente più propizi per la diffusione discografica. Johnson morì avvelenato dal marito di una delle sue tante amanti in una triste notte dell’estate del 1938, all’età di soli ventisette anni.

Se il Mississippi è stato il luogo d’origine del Blues down home, altre regioni del Nord America sono state interessate dal movimento musicale, cosa che ha consentito lo sviluppo di caratteristiche proprie in ognuna di esse.

La costa orientale ha prodotto musicisti spesso brillanti, situati tra il jazz, il ragtime ed il blues. Blind Blake, Blind Willies McTell, il famosissimo reverendo Gary Davis, Blind Boy Fuller, l’armonicista Sonny Terry, sono solo alcuni dei giganti di quell’area geografica.

Il Texas blues è stato particolarmente originale grazie ad artisti come Blind Lemon Jefferson (il più celebre e rappresentativo), Leadbelly, Texas Alexander, Lightinin’ Hopkins e T-Bone Walker tra gli altri. Il suono di questa regione era caratterizzato da una forte influenza latinoamericana, con uno stile chitarristico molto vicino al flamenco e con dei testi meno cupi e più brillanti di quelli del Delta.

Memphis fu la città che diede il suo nome al Blues. Proprio nel grosso centro del Tennessee, un autore di nome W.C. Handy riportò per la prima volta sullo spartito, quei temi che fino ad allora si erano tramandati per fonte orale (The Memphis Blues, Beale Street Blues). 
Importante porto e strategico nodo stradale e ferroviario, la città di Memphis ha rappresentato un polo di attrazione negli spostamenti migratori verso le realtà industriali del Nord. Qui nacquero importanti case discografiche come la Sun Record e la Stax che raccoglievano le espressioni più svariate della musica nera: Soul, Jazz, Gospel, Blues e R&B. Furono questi i generi lanciati da personaggi come Furry Lewis, Memphis Minnie (una delle prime donne che oltre a cantare si accompagnavano con la chitarra), Sleepy John Estes, l’armonicista Sonny Boy Williamson II (che nel vicino Arkansas diffondeva il Blues attraverso la radio con il programma King Biscuit Time), Walter Horton, James Cotton, Howlin’ Wolf, B.B. King, Bobby Bland e Johnny Ace.


Nella multietnica New Orleans, colonia prima spagnola e poi francese fino al 1803, il Blues era soltanto uno dei generi musicali che si potevano ascoltare. Terra d’origine del Jazz, che i primi pianisti suonavano nelle "barrelhouse" (i bordelli del quartiere Storyville) e grazie alla moltitudine di culture che proprio qui erano venute a contatto, la "Crescent City" produsse infinite combinazioni di suoni che si adattavano tanto alle feste come il carnevale creolo o "Mardi Grass" quanto ai funerali, con gli immancabili ottoni ed i caratteristici suoni dixieland. Pianisti come Professor Longhair e Champion Jack Dupree, compositori come Allein Tussaint e Doc Pomus, cantanti come Fats Domino e Little Richard negli anni successivi, hanno fatto la storia di questa città davvero unica.


St. Louis, Missouri, collocata a metà strada fra New Orleans e Chicago, divenne un’importante stazione di sosta nelle migrazioni delle popolazioni nere e fu qui che si sviluppò il fenomeno delle "riverboat bands", le orchestre che suonavano sui battelli in viaggio lungo il fiume Mississippi. Anche se a St. Louis predominavano i pianisti (Roosvelt Sykes, Peetie Wheatstraw, Leroy Carr), non mancavano di certo chitarristi, come Scrapper Blakwell, in grado di creare uno stile assolutamente originale.

 

SWEET HOME CHICAGO

Il flusso migratorio dei lavoratori neri in cerca di occupazione (e di miglior fortuna) ebbe, nella maggior parte dei casi, una comune meta: Chicago. La capitale dell’Illinois era sede di numerosi agglomerati industriali e di conseguenza la richiesta di manodopera per ferrovie, acciaierie, e per i famigerati "stockyards" (i macelli della zona sudoccidentale della città), alimentò le aspettative dei tanti disperati che, con mezzi di fortuna, pochi quattrini e tanti sogni, si misero in viaggio dagli Stati meridionali.


La Windy City (cosi chiamata per i forti venti provenienti dal lago Michigan) diventò, nel primo decennio del secolo, la Mecca per le comunità di colore che si stabilirono in gran parte nella vasta area della zona Sud, quel "South Side" nel quale nacquero vertiginosamente studi di registrazione, locali notturni e case discografiche (da ricordare la Chess Record, la Vee-Jay, e la Cobra). Il numero degli abitanti neri sul totale della popolazione bianca passò dalle 100 unità su 4.000 nel 1837 alle 110.000 su 2 milioni nel 1920. Particolarmente numeroso il contingente di musicisti che da New Orleans si spostò a Chicago dopo la chiusura del quartiere a luci rosse di Storyville decretata dalla Marina Americana nel 1917.

Il Jazz, prima ancora del Blues, alimentò la vita dei locali notturni (sviluppatisi nel frattempo anche nella "West Side" della città) grazie ad artisti come Tommy Ladnier, Freddie Keppard, King Oliver, la cantante Bessie Smith ed un tale trombettista di nome Louis Armstrong.

Un Blues più schietto e verace prese piede invece nelle taverne e nei "rent parties" della South Side grazie a musicisti come Tampa Red, John Lee "Sonny Boy" Williamson (da non confondere con Rice Miller o Sonny Boy Willamson II) e Big Bill Broonzy che, alla fine della seconda guerra mondiale, diedero vita al cosiddetto "Bluebird Beat", dal nome dell’etichetta discografica RCA-Bluebird del produttore Lester Melrose.

Big Bill Broonzy (Scott, Mississippi, 1893 – Chicago, Illinois, 1958) si trasferì a Chicago negli anni venti costruendosi la fama di virtuoso della chitarra. Lasciò però ben presto l’originale suono del Delta, del quale aveva esportato tutta la magia, in favore di una musica che, arricchita ed ingentilita dagli ottoni, avrebbe svoltato verso atmosfere dal sapore "jazzy" rompendo progressivamente i legami con la tradizione rurale.

Ma la vera rivoluzione nel Blues avvenne quando arrivò a Chicago un bracciante agricolo nato a Rolling Fork, Mississippi, nel 1915 il cui vero nome era McKinley Morganfield ma che il mondo avrebbe conosciuto come Muddy Waters (letteralmente: acque fangose).
Risulta davvero incalcolabile l’influenza che Muddy Waters ha avuto sui musicisti bianchi e neri coinvolti e
profondamente affascinati da quei suoni. I Rolling Stones (il gruppo rock più celebre di tutti i tempi) hanno preso nome proprio dal titolo di un suo brano ed anche una tra le riviste americane più conosciute nel mondo, simbolo della controcultura degli anni sessanta, se n'è appropriata nell'intestazione: il Rolling Stones magazine.
Se per il Chicago Blues, così come è conosciuto universalmente, si vuole stabilire una data d’inizio, questa fu, senza alcun dubbio, quel 1948 in cui il cantante e chitarrista registrò "I Can’t Be Satisfied" nella quale confluirono le reminiscenze di un Blues "down home" esasperato dall’elettrificazione degli strumenti che era avvenuta in maniera massiccia in quegli anni. Nella band di Muddy transitò il gotha di Chicago, una lunga lista nella quale hanno brillato i nomi dei chitarristi: Jimmy Rogers, Buddy Guy (che con Otis Rush e Magic Sam darà vita al fertile movimento del "West Side Blues"), Luther "Guitar Jr." Johnson, Bob Margolin, Pat Hare (condannato all’ergastolo per aver ucciso la moglie!); degli armonicisti: Little Walter, James Cotton, Junior Wells, Big Walter Horton, George "Harmonica" Smith; dei pianisti: Otis Span, Lafayette Leake, Pinetop Perkins; dei batteristi: Fred Below, Francis Clay, Willie Smith.

E se Muddy Waters rimane ancor oggi l’idolo incontrastato del Chicago Blues, artisti come Elmore James, Howlin’ Wolf ed il contrabbassista e produttore Willie Dixon (anch’egli elemento stabile nel combo di Waters), contribuirono considerevolmente alla consacrazione di quel genere che avrebbe dato direttamente vita al Rock’n’Roll come profeticamente recitava il titolo di una canzone dello stesso Muddy Waters: "I Blues hanno avuto un figlio e l’anno chiamato Rock’n’Roll".

 

IL BLUES NEL TERZO MILLENNIO


Se negli anni sessanta le frontiere per il Blues si allargarono anche al di qua dell’Atlantico grazie all’entusiasmo di giovani musicisti inglesi ed alla missione di "evangelizzazione" svolta da artisti come Sonny Boy, Muddy Waters e Big Bill Broonzy, gli anni settanta ne segnarono un netto declino. Nel caotico evolversi delle nuove tendenze furono ben pochi a rimanere a galla. Su tutti B.B. King ed Albert King che, per orientamento artistico ed acume manageriale, riuscirono a far fruttare un naturale cossover ben orientato verso quel R&B-Soul imperante che nel frattempo si era sostituito al Blues tradizionale nei gusti delle nuove generazioni nere.

Bisognerà attendere gli anni ottanta per assistere alla "Blues Explosion" scatenata dal film di John Landis, The Blues Brothers. Un successo dalle proporzioni enormi che, grazie alla simpatia ed al mecenatismo degli attori-musicisti John Belushi e Dan Aykroyd, ha riaperto le porte delle case discografiche ad artisti che non riuscivano più ad andare oltre il cosiddetto sottobosco dei clubs americani. Tra questi, tanti eroi della musica nera come Cab Calloway, Aretha Franklin, Ray Charles, Matt "Guitar" Murphy, Steve Cropper e James Brown, solo per citare i più famosi.

Da quel momento è stato un fiorire di etichette specializzate nella musica Blues tanto negli Stati Uniti quanto in Europa. La Alligator e la Dellmark a Chicago, la Black Top e la Rounder a New Orleans, la CrossCut in Germania e la milanese Appaloosa in Italia.

Molti giovani artisti si affacciano oggi sulla scena internazionale cimentandosi con una musica che, da tempi ormai remoti, ha trasmesso il suo linguaggio agli uomini di tutte le razze.

Robert Cray, Joe Louis Walker, Keb' Mo', esponenti di spicco tra le ultime leve dei musicisti di colore, propongono una evoluzione del linguaggio originario verso sonorità fortemente contaminate da accenti pop che, nonostante siano state fino ad oggi mal digerite dagli appassionati più integralisti, hanno consentito al Blues di scalare i vertici delle classifiche.



    

Steevie Ray Vaughan (scomparso a seguito di un incidente di volo nell’agosto del 1990, all’età di trentasei anni) ha rappresentato, per i più, il diretto discendente dei grandi chitarristi del passato, capace di coniugare il classico Blues ad un suono prepotentemente Rock, restituendo così linfa vitale alla musica del diavolo. 
E’ infatti merito di una schiera numerosa di artisti bianchi l'aver risvegliato un interesse più ampio nei confronti degli ormai pochi bluesmen DOC ancora in vita che continuano a calcare le scene quali testimoni ed interpreti di una musica antica, traghettata con immutato fascino nel terzo millennio e certamente in grado di acquisire nuovi proseliti.


 

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